di Leonardo Deambrogio
21 anni, di Terranova, una piccola frazione di Casale Monferrato (AL). Diplomato nel “vecchio” curricolo di
Ragioneria, dove ha imparatp ad amare il diritto, l'economia… e la scrittura. Dallo scorso anno frequenta il
corso di Scienze politiche e relazioni internazionali all'Università la Sapienza di Roma. Tra le sue passioni, il
basket, la campagna e il “cercare di donare un pezzetto di se stesso agli altri in oratorio, ricevendo,
ovviamente, molto di più”.

Scrivere di se stessi non è mai semplice. Scrivere di se stessi in un periodo, quale quello universitario, in cui la tua piccola e personale parte di mondo e il modo in cui la osservi sta vivendo cambiamenti importanti ed
è alla ricerca di certezze solo in parte già trovate è anche più difficile. Però può essere utile, può servire a mettersi di fronte a uno specchio, riflettere e chiedersi, anche con il rischio di non avere tutte le risposte, a
che punto di questa ricerca si è arrivati, e se questo anno e mezzo di università mi abbia aiutato almeno un po’ in questo. Dall’anno scorso studio Scienze politiche (“Scienze politiche e relazioni internazionali” per essere precisi, ma a ripeterlo per intero ci ho rinunciato alla seconda volta che mi hanno chiesto cosa studiavo) all’università la Sapienza di Roma. Scienze politiche. Su questo in realtà avevo pochi dubbi, solo in questa facoltà sapevo di poter trovare stimoli alle mie passioni e interessi. Sin da quando i miei amici sognavano di fare il calciatore, io, che a calci non so prendere neanche le sedie, sognavo di fare “il sindaco”. Ma questo non perché avessi delle manie di grandezza o di protagonismo, ero anzi piuttosto timido, ma semplicemente perché guardandomi intorno iniziavo a notare una cosa che mi metteva, e ancora mi mette, paura, o quanto meno inquietudine: notavo
cioè che le persone, la comunità in cui vivevo, si andavano via via “dislegando”, mi sembrava che ognuno pensasse sempre più solo ai propri interessi, e quindi il sindaco mi sembrava la figura più adatta a cercare di opporsi a questo processo. In un articolo che mi chiesero di scrivere in seconda superiore e che sono andato a cercare in questi giorni ho scoperto di aver scritto proprio queste parole, “creare un nuovo senso di solidarietà”, segno che la cornice del mio sogno, per quanto vaga e confusa, già fosse presente in quel momento. Roma. Qui i dubbi erano già qualcuno in più. Studiare nella capitale era un mio grande obiettivo, però partire dalla provincia piemontese (odio questa espressione, neanche si trattasse di un universo parallelo, però in fondo rende l’idea) con la prospettiva di trascorrere come minimo i successivi tre anni in buona parte a 650 chilometri da casa ti mette di fronte a una scelta quanto meno non scontata. A conti fatti però sono felice di aver avuto il coraggio di quella scelta, e ancor più sono debitore nei confronti dei miei genitori, che l’hanno appoggiata pur forse, all’inizio, con un carico di tensione persino più grande del mio. La distanza “da casa” ha poi rivelato inaspettati aspetti positivi proprio nel rapporto con ciò che “di casa” più porto nel cuore. Il tempo limitato, almeno durante l’anno accademico, mi ha insegnato a valorizzare ogni istante passato insieme alla mia famiglia e a capire quali sono le persone e i luoghi davvero importanti per me e con i quali ho imparato a mantenere vivo il legame, tanto che ormai buona parte del “ritorno” si è trasformato in un “rito”: in una serie di gesti, di uscite, di incontri, volti proprio a tenere acceso questo legame. Ma anche nella capitale nel frattempo ho trovato nuove persone davvero importanti. Una nuova numerosa un po’ rumorosa ma specialissima seconda famiglia, la residenza universitaria salesiana che, un po’ per consiglio, un po’ per caso, dall’anno scorso è diventata la mia casa romana. Una famiglia che mi fa ridere quando sono triste, che mi fa confrontare con storie diverse, che qualche volta mi fa anche commuovere, come alcuni giorni fa in occasione del mio compleanno… Una famiglia in cui mi sento allo stesso tempo
“nipote” di Aurora e Paolo, che questo posto hanno il gravoso onere ma anche l’enorme fortuna di gestire, “cugino” (o zio, dipende quanto mi considerano vecchio) delle loro bambine, “fratello minore” e forse quest’anno qualche volta anche “maggiore” degli altri miei “confratelli”, come li ha soprannominati scherzando un mio amico. Oggi è passato oltre un anno e mezzo dal mio arrivo a Roma, un anno e mezzo in cui ho ricevuto più di quanto mi sarei mai potuto aspettare. I corsi universitari mi stanno davvero portando a quello che è l’obiettivo dichiarato del corso, quello che i professori più volte ci hanno ripetuto sin dalle prime lezioni, e cioè a capire la “complessità delle cose”. Io all’inizio ci ridevo un po’ su pensando a questo, mi sembrava una di quelle tipiche e astratte frasi fatte da dire agli studenti da parte di insegnanti che vivevano su un altro pianeta. Da qualche mese a questa parte però ho dovuto rivalutare questa idea (e ho anche scoperto che i professori non sono degli alieni): capire la complessità è il rimedio contro le quelle soluzioni semplici e semplicistiche che il mondo ogni giorno tenta di offrirci. Capire la complessità è l’unico modo per evitare che quel sogno rimanga tale. Sogno. Quest’anno nella nostra residenza abbiamo più volte riflettuto su questa parola, una parola che, insieme a “vocazione”, intesa nel senso più ampio del termine, penso possano ben riflettere quello che io vorrei fosse il senso del percorso universitario. In particolare quello che mi aspetto da questo viaggio è di capire come collegare queste due parole, capire cioè seguendo quale “vocazione” (lo ribadisco, intesa in senso generalissimo, come risposta a “cosa sono chiamato a fare io nella vita?”) io possa riuscire a tradurre in atto concreto il mio sogno, quella volontà di fare “politica” nel suo significato primario, quindi di fare “il bene di tutti”. A volte uno vorrebbe una risposta rapida a tutto questo, eppure l’università penso sia anche un’occasione in cui imparare a relazionarsi con il tempo in modo diverso: cos’è in fondo l’iniziare a studiare a marzo per un esame che sosterrai a luglio se non una prova in piccolo di quanto a lungo dovrai impegnarti nella vita per realizzare il tuo sogno? E se a luglio, sostenuto l’esame, ti senti la persona più felice del mondo perché ti guardi indietro e ti senti orgoglioso di quei mesi, che a volte magari sembravano lunghi e inutili, passati sui libri, per quanto dovrai moltiplicare quella felicità nel momento in cui, un giorno, ti accorgerai di aver trovato quella risposta senza neanche accorgertene, di aver scelto la vocazione giusta per raggiungere il tuo sogno?