di Lisa Zeriali
Ho 26 anni, sono nata e cresciuta nel Friuli Venezia Giulia ma per scelte di vita a 18 anni mi sono trasferita in Veneto. Già quindicenne mi sono affacciata al mondo della disabilità, che – ad oggi – è diventato il mio (mondo). Fu un incontro molto casuale, frequentavo le scuole superiori con indirizzo tecnico dei servizi socio sanitari e in programma didattico una parte di ore doveva essere laboratoriale, laboratorio di teatro sociale, in collaborazione con un centro diurno per persone disabili del territorio. Ho conosciuto così delle persone che mi hanno “aperto” a questa vita. Ecco, ho detto subito la conclusione… ma i passi sono stati tanti. Per un anno intero di scuola ho partecipato a quel laboratorio. Questo percorso suscitava in me un interesse particolare, così in quegli anni ho deciso di frequentare come volontaria anche numerosi centri diurni per persone disabili, oltre all’inserimento permanente all’interno di un gruppo teatrale sociale. Passarono così i cinque anni di scuola e si avvicinava sempre di più il momento della maturità in cui dovevo decidere cosa fare del mio futuro professionale (e personale). Tante domande, poche risposte, tante emozioni e sensazioni ma poche certezze, ma seppur arricchenti, le emozioni non mi bastavano per prendere una scelta definitiva per gli anni a venire. “E se fosse solo l’entusiasmo del momento? E se mi piace solo perché finora non mi sono interessata ad altro? E se non sto cogliendo i rischi? e se…? e se…?”. Dovevo iniziare a provare a darmi delle risposte, così nell’anno della maturità ho deciso di andare alla Piccola Casa della Divina Provvidenza a Torino, due settimane, da sola: mi sono detta che solo una forte esperienza di servizio con/dell’altro, senza particolari distrazioni poteva darmi le risposte che cercavo. Sono state le due settimane più belle, intense e allo stesso tempo difficili vissute fino a quel momento, ma proprio lì è avvenuta la mia decisione definitiva riguardante il mio futuro. Curioso è stato come in realtà io non abbia mai trovato risposta alle domande con cui mi ero arrovellata, ma al contrario ad oggi sono diventate parte della motivazione che mi spinge a fare questo ogni giorno. La fase successiva era rendere concreta e solida la convinzione di voler star con l’altro, ma come? “Voglio fare l’educatrice o l’operatrice?” mi chiedevo, e così ho fatto entrambi i percorsi. Questo mi ha permesso di avere e di vivere uno sguardo globale, focalizzato sul rispetto dell’altro e della sua dignità. Ora però vorrei soffermarmi sul percorso universitario conclusosi questo gennaio 2024. Ho scelto di svolgere questo percorso a Mestre presso lo Iusve (Istituto Universitario Salesiano Venezia). Questo Istituto ha una peculiarità che mi ha molto colpita, perché la cura dei docenti verso gli studenti considerati anzitutto come persone e poi come educatori. Forse ho fatto la scelta universitaria anche superficialmente, un po’ con la presunzione che per “fare” gli educatori bastava “essere” educatori, dando per scontato l’essere “persone”, quasi questo fosse un dato di fatto, naturale, su cui aggiungere poi una professionalità. (Un ricordo: il primo insegnamento accademico di cui ho fatto tesoro è che deve coesistere un equilibrio tra sapere, saper essere e saper fare). Al momento dell’iscrizione ancora non ero consapevole dell’incredibile viaggio che stavo per iniziare. L’università per me è stata la mia seconda casa, e lo è tutt’ora poiché sto proseguendo gli studi; è inoltre la palestra di vita in cui posso mostrarmi davvero per ciò che sono, con le mie paure, insicurezze e vulnerabilità, è quel luogo in cui i miei dubbi a volte trovano risposta, a volte magari no, ma mi stimola una riflessività continua. Vivo una vita a dir poco frenetica, ho poco spazio e
pochi momenti in cui riflettere davvero, ma all’interno delle aule questo invece diventa possibile. All’interno dell’università nei tre anni di frequenza ho avuto modo di entrare in relazione con diversi professori, i quali, ancora oggi, rappresentano per me un vitale punto di riferimento, consiglieri, e talvolta “luci” in mezzo a periodi bui.
Il mio percorso accademico mi ha insegnato a porre il giusto equilibrio tra ciò che è desiderato e ciò che è atteso, spesso i due non coincidono e a volte il contraccolpo potrebbe essere importante, di riflesso, a comprendere che lo stesso può valere per chi ho di fronte. Lavorare con persone disabili per me idealmente significava cercare sempre da parte mia di dare il meglio di me, e da parte loro di venire riconosciuti come persone nella loro dignità e bellezza, e a battermi in prima persona per la loro libertà, ma ho imparato nelle aule e poi nella realtà quotidiana, a comprendere che per libertà non si intende il non scontrarsi con il limite, bensì il saperlo
accogliere e riconoscere, e per questo sentivo di dover accompagnare l’altro a saper scegliere. Ho anche appreso che in tanti momenti e circostanze non servono parole, ma basta osservare l’altro, ciò che lo circonda, e così il rispetto degli spazi e dei momenti degli altri può far emergere la necessità del silenzio. Al silenzio non sono mai stata abituata, credevo che bisognasse necessariamente riempire ogni apparente vuoto. Ma lo studio e l’esperienza mi hanno permesso di capire che professionalità significa anche darsi e dare dei tempi, che correre continuamente altro non può fare che far perdere l’essenza e la bellezza di ogni momento vissuto. E ancora ho appreso che stare accanto non significa stare sopra all’altro, ma a volte indietro, a volte avanti, a volte ancora proprio accanto. Per me sono stati anni molto intensi, non privi di difficoltà, tante certezze si sono sgretolate, altre invece si sono create. Da circa cinque anni ormai il mio lavoro si svolge presso il Centro don Orione di Chirignago, un centro residenziale e non, per persone con disabilità adulte, e in esso ho creato una mia compagnia di teatro sociale formata da volontari, studenti e residenti del centro, realizzando così uno dei miei desideri e mettere in gioco i miei talenti personali, che qui hanno trovato non solo espressione ma senso. Quando arrivo al Centro ogni giorno un mio ospite mi accoglie con queste parole: “Bel fiore”. Ecco, in queste due parole (anche un po’ poetiche) credo che si racchiuda tutto il mio percorso universitario, di vita e lavorativo. Tutti intrecciati insieme. Proprio come un fiore, ogni cosa va annaffiata, curata, protetta, ma allo stesso tempo, con coraggio, esposta a rischi per poterla far fiorire. Con estrema gratitudine allo Iusve e al centro don Orione per
essere sempre stati per me la “serra” in cui coltivare. Ad oggi mi ritengo un’educatrice consapevole… ma… ancora in cammino.
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