In memoria di Livio Pescia
Livio Pescia, ligure di Rapallo nato nel febbraio 1938, è figura certamente non marginale nel panorama del cattolicesimo democratico della seconda metà del ‘900.
Prima di tutto per la rigorosa coerenza morale, per quella spiritualità tanto intensa quanto contenuta in una riservatezza che era tratto distintivo, si può dire principale, della sua personalità e fede religiosa.
Di lui si dovrebbe dire dell’esperienza di direttore di Ricerca al Censis, dell’apporto di impegno e riflessione politica nella Lega Democratica, dei fondamentali contributi nel settore degli studi sull’istruzione, la scuola e la formazione, e in particolare dell’attività svolta all’IRI durante la presidenza di Romano Prodi, di cui era collaboratore stimato e amico fraterno. Da ultimo Pescia si trasferì a Torino per lo svolgimento di compiti di responsabilità nelle Istituzioni europee e in particolare presso la European Training
Foundation presso cui fu investito di funzioni direttive.
Ma soffermiamoci sull’esperienza fucina.
Nella Fuci è stato Segretario Centrale tra il 1961 e il 1964, anno in cui si trasferì alla Giac come Delegato centrale studenti (caso non frequente di esponente della Azione Cattolica che fu dirigente sia nella Fuci che nella Giac, a testimonianza di una riconosciuta apertura mentale e duttilità di approccio).
Chi ebbe la fortuna di essergli vicino durante la sua esperienza fucina avrebbe tanto da riferire e raccontare di una confidenza che poi è rimasta e anzi si è alimentata nel
corso degli anni. Vorremmo qui limitarci a tre aspetti che sono distintivi della sua esperienza in Fuci.
1. Il rapporto tra Presidenza e circoli periferici. Il ruolo svolto da Livio Pescia è stato determinante nel rendere più organico e virtuoso il legame tra Centro e periferia. Si dibatteva al Centro nella sala riunioni di Via Conciliazione 4d su temi, scenari e prospettive; ma poi era Livio, mediante continui contatti e una fitta e intensa corrispondenza con i circoli periferici, a garantire il legame federativo, a fare in quegli anni della Fuci un organismo variegato ma coordinato e convergente di intelligenze, di
capacità propositive, di presenza cristiana nelle Università e nelle Diocesi. Le lettere di Livio, quelle che lui riceveva e la intensità di rapporti che egli era capace di intrattenere
erano – si può dire – riscontro efficace e virtuoso di una federazione che nel rispetto delle diversità, ma nella unità della ispirazione e degli ideali, presentava il volto e la identità che la contraddistingueva nel panorama del laicato cattolico.
2. Discendeva da questa ricchezza di rapporti un patrimonio di profondi vincoli di amicizia: proprio di quella amicizia che è stato ed è un tratto distintivo e valore fondante della Fuci. Non era Livio quello che si può dire un conversatore brillante, non si distingueva certo per l’efficacia e la capacità persuasiva di chi si impone con forte personalità. No. Livio preferiva piuttosto ascoltare, suggerire in modo apparentemente dimesso. Era un comunicatore pacato, solo talune volte sorprendeva per qualche insistenza. Ma era proprio questa capacità di ascolto, questa sensazione di averlo sempre vicino e presente che alimentava un operoso fitto intreccio di amicizie: una rete di rapporti forti e leali che egli fu capace di intrattenere con tanti fucini di ogni parte d’Italia. Tutti conoscevano Livio. E di tutti Livio era un amico.
3. Il terzo aspetto che è bene ricordare in Livio è il rapporto tra tradizione e rinnovamento. Pescia aveva forte il convincimento di un filo ininterrotto che congiungesse le origini della Fuci alla sua contemporaneità: da Righetti, Montini a don Guano, don Costa e poi in avanti. Ma Livio aveva anche e soprattutto un senso del trascorrere del
tempo, un bisogno di sempre nuovo ricominciamento: reinterpretare il passato con un po’ di rimpianto, ma anche avvertire il bisogno di corrispondere alle attese dell’età presente. E nei suoi rapporti con i circoli questo significava rispetto e considerazione per ogni retaggio locale, ma al tempo stesso stimolo a guardare avanti con spirito di iniziativa, con coraggio e sempre con unità di intenti. Tanti anni più tardi, assistendo ormai con i capelli bianchi ad un incontro della Fuci insieme a qualche amico, Livio sente i convegnisti intonare l’inno “noi siam la giovinezza…..”. All’amico vicino che accenna un sorriso Livio tocca il braccio e osserva “ascoltiamo: forse questa è l’ultima volta che lo cantano”: un po’ di rimpianto ma insieme la consapevolezza, la certezza di una continuità che però avvertiva l’esigenza di nuovi linguaggi.
Italo De Curtis
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