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Esther Hillesum, detta familiarmente Etty, è figura che negli ultimi anni si è andata riscoprendo non solo per la vita intrecciata a doppio filo con le vicende belliche della sua Olanda, ma anche per il profondo itinerario spirituale che – se pur non la farà aderire convintamente a nessuna religione – spinge il credente a un interrogativo profondo sul rapporto con Dio.

Nacque a Middelburg il 15 gennaio 1914: l’adolescenza passata alla ricerca di punti fermi che nella sua famiglia di origine ebraica non riuscì a trovare. Il padre, professore di greco e latino, e la madre, ebrea trasferitasi in Olanda a seguito di un pogrom, non riuscirono mai a instaurare con lei un rapporto filiale, essi «non potevano offrirci nessun punto d’appoggio, dato che non ne avevano mai trovato uno per sé; e non potevano contribuire alla nostra formazione perché non si erano mai trovati una forma»[1]. Anche con i fratelli Etty avrà rapporti molti tesi: entrambi d’intelligenza fine, ma con forti problemi psicologici, non compresero mai fino in fondo la sorella. Il quadro familiare fu sconvolto dalla guerra: se prima di essa la famiglia rimase sempre scomposta, proprio nel momento ultimo della sofferenza nel campo di transito di Westerbork, ritrovò coralità pur nelle fessure profonde di problemi mai risolti. In questo contesto nasce l’itinerario della nostra autrice. Formata alle lettere classiche, studiò – per convenzione più che per convinzione – diritto all’Università di Amsterdam, ma parallelamente continuò l’approfondimento delle lingue. I suoi scritti oggi pervengono attraverso la pubblicazione del Diario e delle Lettere. In particolare nel Diario ritroviamo la Etty più profonda: esso narra i suoi ultimi due anni di vita (1943-45) e nasce sotto indicazione dello psico-chirologo Julius Spier che per qualche tempo la seguì. Proprio dal rapporto con Spier nacque il percorso di maturazione personale e spirituale attraverso il quale comprese «chiaramente che non sono pazza e che ho semplicemente bisogno di lavorare profondamente su me stessa per diventare una persona adulta e completamente umana»[2].

Nella lettura del Diario ci troviamo di fronte ad un dialogo sincero tra le anime indivise della personalità di Hetty per questo è necessaria l’avvertenza metodologica che «sono necessari molta attenzione e rispetto. […] E’ un cammino che ha sempre richiesto una vita intera per pochi, uomini e donne, che sono riusciti a percorrerlo»[3].

Il cammino che compie Etty si sviluppa nella relazione con sé, con gli altri e con Dio. La triplice relazione è un movimento cronologico e spirituale del suo incedere. La relazione con la propria coscienza è ciò che scoviamo come primo elemento di liberazione. «Nel profondo di me stessa, io sono come prigioniera di un gomitolo aggrovigliato, e con tutta la mia chiarezza di pensiero a volte non sono altro che un povero diavolo impaurito»[4]: questa la consapevolezza da cui parte per arrivare a sciogliere i nodi più profondi nell’apertura agli altri, nell’accettazione di seguire il suo popolo fino alla morte, nell’affermare senza riserve di fronte alle possibili vie di salvezza: «Io voglio condividere il destino del mio popolo!».

La relazione con gli altri nasce da un vissuto familiare problematico e prosegue in anni universitari di relazioni sregolate. In queste brevi battute, ci accontentiamo di cogliere solo la fine di un percorso nato nelle peggiori condizioni, ma che si tramuterà in un «altruismo radicale»[5]. Nell’esperienza del campo di Westerbork, trovò la forza dell’amore che – in maniera disordinata – aveva cercato nell’adolescenza. «Qui molti sentono languire il proprio amore per l’umanità – scrive – perché questo amore non è nutrito dall’esterno. […] Qualcuno ha detto: “La massa è un orribile mostro, i singoli individui fanno compassione”. Ma ho dovuto ripetutamente constatare in me stessa che non esiste alcune nesso causale fra il comportamento delle persone e l’amore che si prova per loro»[6].

Quest’amore portò Etty a una relazione autentica e complessa con Dio. La sua vita era un «grande colloquio»[7] con l’Eterno: dalla meditazione della mattina, fino all’implorazione della sera che più volte si manifestò nel pianto per la disperazione letta negli occhi dei deportati. Sintetica l’affermazione che troviamo in un delle parti più intime del Diario: «E’ stato proprio un cammino faticoso. Ora sembra tutto così semplice e così ovvio. Questa frase mi ha perseguitata per settimane: “Bisogna osar dire che si crede”. Osar pronunciare il nome di Dio»[8].

Etty, profondamente credente e studiosa attenta del Vangelo, non era cristiana, ma la sua esperienza di fede svela l’adesione alle parole di amore di Cristo. Soprattutto per coloro che sono studenti universitari la sua figura ricorda il moto incessante della ricerca e dell’apertura del proprio studio agli altri. Come ebbe modo di scrivere in un ammonimento per se stessa in colloquio con Dio: «Fondamentale è distaccarsi dal tuo piccolo io personale, concentrarsi sul lavoro e aprirsi agli altri. Sono estremamente malcontenta di te, tu ti avviluppi e ti crogioli nelle spirali della tua anima. Ancora una volta tu trovi la tua persona troppo importante. Devi andare oltre te stessa, aprendoti all’impersonale»[9]. Un richiamo, arricchito e confermato dalla testimonianza, che rimane valido per tutti quelli che vogliono condurre oggi una vita intellettuale.



[1] E. Hillesum, Diario 1941-1943, Adelphi, Milano, 1985, p. 91.
[2] Ivi, pag. 1.
[3] A. Barban, A. C. Dall’Acqua, Etty Hillesum. Osare Dio, Cittadella Editrice, Assisi, 2012, pag. 73.
[4] E. Hillesum, Diario 1941-1943,  op. cit, p. 23.
[5] P. Labeau, Etty Hillesum. Un itinerario spirituale Amsterdam 1941-Auschwitz 1943, Paoline, 2010.
[6] E. Hillesum, Diario 1941-1943, Adelphi, Milano, 1985, pp. 109-115.
[7] Ivi, pp. 122-123.
[8] E. Hillesum, Diario 1941-1943,  op. cit, p. 98.
[9] Ivi, p. 205.