Il ripensamento della Federazione. Dallo statuo alla proposta formativa

di don Andrea Decarli
GIÀ ASSISTENTE ECCLESIASTICO NAZIONALE DELLA FUCI DAL 1998 AL 2004, ORA È PRESBITERO DELLA
DIOCESI DI TRENTO, DOCENTE DI TEOLOGIA FONDAMENTALE ALLO STUDIO TEOLOGICO ACCADEMICO DI
TRENTO, DELEGATO PER LA CULTURA E L’UNIVERSITÀ E PER IL DIALOGO ECUMENICO E INTERRELIGIOSO.

e Gaia Zordan
FUCINA DEL GRUPPO DI PADOVA E LAUREATA IN DISCIPLINE DELLE ARTI, DELLA MUSICA E DELLO
SPETTACOLO (DAMS).

Gaia Zordan: La Fuci è una realtà molto transitoria, con un ricambio molto attivo, molto vivo. Sono
stati indetti gli Stati Generali per capire che cos’è la Fuci oggi, quali sono gli obiettivi formativi e
quali sono gli orizzonti che si vogliono provare a raggiungere, a cui avvicinarsi, anche con la
prospettiva e con la consapevolezza che viviamo un tempo che è mutevole. Poter mettere su carta
tutto questo, frutto di due anni di intenso lavoro, ci ha mosso qualcosa dentro: chi siamo, cosa
vogliamo essere e cosa vogliamo proporre alla comunità studentesca dei giovani cristiani della
Chiesa, anche a livello ecumenico.
Da dove è nata l’esigenza di un ripensamento della Fuci?
Don Andrea Decarli: Il tema su cui mi sollecitate richiama esattamente ciò che al tempo ci siamo
chiesti: come pensare e ripensare, alla luce di grandi cambiamenti (come l’avvento del terzo
millennio), la proposta della Fuci e la grande tradizione fucina per il nostro tempo? Già ce
l’eravamo chiesto con il centenario della fondazione della Federazione, nel 1996, per intraprendere
un percorso di approfondimento su tali questioni. Ogni generazione di fucini si chiede come essere
attuali. In alcuni momenti si approfondisce meglio e si cerca di darne un’esplicitazione particolare.
Nel nostro caso è stata quella dello statuto, permettendoci di fissare ciò che ci era parso necessario
organizzare. Ricordo anche che lo Statuto votato in Assemblea Federale non è stato semplicemente
un’evoluzione burocratica, di irrigidimento all’interno di formule. Lo statuto nasce dentro un
percorso di rinnovamento e comprensione della nostra tradizione, per aggiornarci. Non è uno
statuto che cambia e rinnova, ma che aiuta a pensare alcune cose, soprattutto in questa
consapevolezza che ogni passo avanti è valido nella misura in cui è ben radicato nel passato. Non è
stato redatto per guardare indietro, ma per diventare radice: se sei ben radicato puoi germogliare,
altrimenti rischi di fare qualcosa di diverso o di perdere qualcosa di importante.
G.Z.: È emerso anche per noi questo aspetto di guardare indietro ma senza rimanere senza fissarlo,
né guardare troppo avanti senza ricordare più ciò che è stato. La Proposta Formativa, come lo
Statuto, è utile e necessaria per darci un’identità che rispecchi la realtà e che proietti i nostri
desideri verso il futuro della Federazione.
A.D.: Questa è la grande regola della tradizione cristiana. Mantieni profondamente radicata la tua
esperienza nell’evento, per poi continuamente rinnovarti nella novità del Cristo risorto.
Nel 1999 abbiamo fatto la settimana di formazione per i responsabili, che aveva il titolo “La Fuci tra
mito e realtà”. L’intento era di riprendere quello che era stato il mito della Fuci (Montini, Righetti,
Moro, Bachelet, ecc.) E di vedere come oggi noi, nel nostro piccolo, possiamo essere all’altezza
della tradizione. Poi, ovviamente ci prendevamo in giro: «una volta c’era Montini, ora c’è Decarli»,
perché se manca l’ironia, siamo persi!
Il percorso di ripensamento si è visto anche nelle forme: abbiamo cambiato alcuni appuntamenti
nazionali, proprio per essere più adeguati allo stato delle cose. La necessità di uno Statuto è nata

anche, e soprattutto, dal bisogno di uno strumento più agile, per esempio nelle richieste di
contributi con altre associazioni. È stato, allo stesso tempo, portatore di tensione perché ci
stavamo rendendo sostanzialmente più autonomi rispetto all’essere un “ramo” dell’ac. Nel periodo
1998-2000 anche l’Azione Cattolica stava rivedendo il proprio statuto; era in corso un processo di
ripensamento generale. Due aspetti hanno caratterizzato il percorso della Fuci verso lo Statuto: un
percorso di rinnovamento generale e la necessità di precisare la nostra natura, non per fissare o
formalizzare ma per collaborare al meglio con realtà come il Msac.
G.Z.: il lavoro che in questi due anni ha portato alla redazione della Proposta Formativa è frutto
dell’impegno delle commissioni e dei RAF, speso in diverse forme e relazioni: intervistando degli
esperti, facendo degli audit tra i gruppi e, infine, con un lavoro comunitario di redazione e
controllo delle bozze seguendo il modello della Scrittura condivisa di don Milani. La natura
democratica e, allo stesso tempo, federale della Fuci, così come l’appartenenza ecclesiale, sono
ancora vive, presenti. Una persona da “fuori” non riesce a capire come possano coesistere tali
aspetti, ed è una delle domande che ti proponiamo, proprio per poterci dare una tua
interpretazione di tale doppia natura nell’anniversario dei 20 anni dello Statuto.
A.D.: Fin da subito sono stati coinvolti come membri della commissione sia rappresentanti di AC,
sia del Meic, della CEI. Tutto era volto a collaborare con una chiarezza di intenti e di interessi, per
svolgere un lavoro condiviso in un quadro di sinodalità. Nell’assemblea di Rimini del 2004, dove è
stato votato lo statuto erano presenti questi rappresentanti ed è stato espresso l’apprezzamento
per il lavoro svolto assieme. Come sempre il lavoro che è messo su carta non solo resta lì, ma
diventa un punto di partenza. Con l’ac è proseguito il lavoro di collaborazione e di rappresentanza,
partendo, appunto, dai lavori che hanno portato allo statuto e, mi pare, che la collaborazione sia
ancora buona. Le grandi trasformazioni hanno anche portato a piccoli cambiamenti, come la
sensibilità dei giovani dell’ac, o degli uffici del settore giovani, rispetto alla Fuci. La Federazione è
espressione di AC in università, si sente Chiesa in uni, sente lo stile di AC come suo.
G.Z.: Anche l’iper specializzazione dell’università senza interdisciplinarietà che permetterebbe
moltissime occasioni di confronto è, invece, presente in Fuci. L’arricchimento emerge grazie ai
contributi dei membri dei gruppi. Nel mio gruppo era emerso un paio di anni fa il problema
dell’accessibilità degli incontri, poiché il linguaggio utilizzato era comprensibile solo da coloro che
avevano avuto una formazione umanistico-filosofica. Data la presenza di studenti di formazione
tecnico-economica, era nata la richiesta di una maggior cura degli incontri per permettere a tutti di
poter seguire le discussioni, ognuno con il proprio bagaglio di esperienze, sensibilità e conoscenze.
Ripensare la proposta fucina in base al numero dei gruppi, dei membri partecipanti agli eventi
nazionali e locali, così come una maggiore sensibilità ai fattori come accessibilità economica e
“intellettuale”, se così la vogliamo chiamare, al di là del tema scelto per l’anno o per i percorsi, è
segno di ascolto profondo e di cura dei membri della Federazione. Anche un aspetto non
trascurabile come la collaborazione con realtà amiche ed esterne è fondamentale: non dare per
scontato le relazioni tra rami dentro AC. Io, ad esempio, sono stata msacchina ma ignoravo
l’esistenza della Fuci fino all’ultimo anno della maturità.

A.D.: Le realtà che si sentono abbastanza forti tendono a chiudersi. Viviamo un momento di
penuria, che è al tempo stesso una grande chance: o ci aiutiamo a vicenda tra organizzazioni e
realtà, o non ne usciamo. È una delle cose da ripensare: come valorizzare le grandi tradizioni e i
contenuti con una maggior capacità di apertura e di collaborazione con gli altri. Valorizzando le reti
e le collaborazioni. Anche noi, all’epoca, cadevamo vittima di questo dare per scontato. Se pensi
che tutto il mondo deve sapere ciò che tu fai, sbagli. Bisogna perciò avere molto chiaro cosa per
noi è irrinunciabile, provare a vedere come queste sono realizzabili e attuabili nelle condizioni e nel
tempo che viviamo. È una ricchezza straordinaria. Il rischio è, oggi come allora, di essere il
“vetero-fucino”, cioè di andare in un posto, non capirci niente ma, siccome si riescono a dire due o
tre parole difficili che nessun altro capisce, allora ti senti “grande”. La scommessa è dare sostanza
all’esperienza della fede, in modo che sia veramente pensata, aperti al dialogo e non chiusi nelle
nostre quattro cose, con un’esperienza cristiana vera, di comunità, e non individualistica.
L’alternativa tra forma democratica e la partecipazione alla Chiesa, che ha, invece, forma sinodale,
è raggiungere insieme quel consenso che nasce dall’essersi convinti che quella è la strada che è di
Dio che ci ha aiutati. Questa polarità è la vera ricchezza. La democrazia è, invece, trovare il
compromesso giusto che tenga conto delle minoranze. La Fuci rende capaci di assunzione di
responsabilità. Io prendo una decisione, non chiacchiero, blatero, urlo e poi gli altri devono fare. In
prima persona ci metto il mio, mi assumo la responsabilità sono io. È, allo stesso tempo, la
sensibilità ecclesiale in una logica sinodale mi aiuta a capire che la responsabilità di costruire
anche la città di un uomo va fatta attraverso lo sforzo necessario per creare consenso, e dare
anche sostanza. Nel nostro mondo, l’Amore si concretizza in certe forme, in certe procedure e in
certe modalità. Non facendoci schiavizzare dalle forme, ma agendo con consapevolezza: la
convivenza civile si concretizza attraverso le procedure democratiche, continuamente riviste,
aggiornate, realizzate.
G.Z.: l’Assemblea Federale permette già di essere palestra di democrazia. Alcune persone giungono
con una delega da parte dei gruppi di appartenenza, così come RAF uscenti ed entranti possono, a
mio parere, fare la differenza nel momento in cui votano mozioni e prendono posizione in un’ottica
di rappresentazione di un gruppo o della Federazione stessa. Il voto non dovrebbe, perciò, essere
quello dell’interesse personale, bensì un voto consapevole del suo portato: le mozioni verranno
affrontate nei gruppi durante l’anno, così come tutte quelle presentate e approvate per
l’Assemblea sono frutto di discernimento e del lavoro di gruppi di persone, siano essi dei gruppi
locali o nati spontaneamente prima o durante i lavori congressuali o, per quest’anno, degli Stati
Generali. Raf e delegati sono, pertanto, la voce di chi è rimasto a casa e che, per mille motivi
diversi, non possono partecipare ai lavori assembleari.
A.D.: Bisogna saper tradurre nel concreto ciò che viene chiamato “qualità”. Se si parla di non dare
peso al numero, ma, piuttosto, al valore dei pochi membri di cui è composta la Fuci, allora si esce
dalla logica di una Federazione elitaria. La cura dei fucini va tradotta non in elitarismo ma in
sensibilità della qualità di persona: non semplicemente per aggregare. Ne ho fatta esperienza:
dove il nostro sforzo riesce, permette di vedere persone innamorate di Chiesa. Bisogna essere
capaci di essere critici; una critica che nasce dalla passione per la Chiesa, come luogo di perdonati

(altrimenti non si capisce il Vangelo). Se, invece, al critica è il giustificare il proprio stare in
panchina, come tante volte avviene, non si vive in maniera ecumenica. Se si è appassionati, si
riesce a cambiare. Il modo in cui Fuci e AC insegnano a formare le persone, credo educhi a
rapportarsi con le gerarchie e, al di là del concreto, è l’essere presente, qui, appassionato per
portare avanti la Chiesa, non la mia idea. Lo spirito di rinnovamento nasce dove c’è la passione. Il
lavoro sullo Statuto aveva queste premesse, anche il tassello di tipo pratico che poi ha portato al
vostro lavoro di questi anni. Il limite grosso della Fuci è il ricambio generazionale. Tuttavia,
quando entri in ambienti con una gerontocrazia infinita, la logica di “aver occupato posti”, come
dice papa Francesco, di sentirsi indispensabili, la Fuci ha, invece, l’antidoto a questo problema.
Ognuno deve fare il proprio lavoro e poi lasciare il posto. Chi ha svolto un compito fino in fondo?
Nemmeno Gesù Cristo perché ha detto “avrei molte cose da dirvi”, ma poi non le ha dette. La
bellezza è che gli altri portino avanti ciò su cui ho lavorato, che ho cominciato. Sapendo anche
rischiare perché chi porta avanti il tuo lavoro potrebbe non fare quello che hai pensato. Non devi
temere che tutto crolli quando non ci sei più. Bisogna relativizzare e non assolutizzare la propria
esperienza. La Chiesa è per tutti, c’è spazio per tutti, valorizzando a pieno le esperienze.