Ripensare e convertire l’università. Idee per una rinascita umana

 

di Samuele Cosimo Fazzi
FUCINO DEL GRUPPO DI FIRENZE E STUDENTE DI GIURISPRUDENZA

e Marco Tarallo
FUCINO DEL GRUPPO DI FIRENZE E DOTTORANDO IN STUDI STORICI PRESSO L’UNIVERSITÀ DI FIRENZE-SIENA,
IN COTUTELA CON L’UNIVERSITÉ POLYTECHNIQUE HAUTS-DE-FRANCE

Il termine Università (dal latino universitas=totalità) descrive quel luogo in cui è appunto possibile
accedere ad una formazione universale, cioè con un metodo non solamente basato sulla didattica
(lezioni ed esami) ma soprattutto sulla ricerca scientifica. Il docente universitario mette il proprio
sapere, mediante pubblicazioni, lezioni e altre attività, a disposizione di una comunità, composta da
studenti, colleghi, ricercatori e anche persone comuni che vogliono accrescere la propria
formazione. Per questa ragione si lega inevitabilmente al concetto di pubblicità: l’Università è per
sua natura e finalità un luogo aperto al pubblico.
Quest’idea di apertura è venuta meno con la pandemia da Covid-19: con il lockdown di marzo e
aprile 2020 e le successive restrizioni proseguite fino alla fine dello stato di emergenza, le
istituzioni universitarie, come altre, hanno dovuto interrompere le attività “in presenza” in favore
dell’ormai famigerata didattica a distanza (DAD).
Molto ne è già stato trattato sia pro sia contra. Ciò che appare evidente è che la Dad non sia la causa
né la soluzione ma semplicemente un fattore che ha reso evidenti o fatto emergere una serie di
problematiche.
Ci riferiamo in primo luogo alle disuguaglianze tra studenti: è vero che la possibilità di seguire le
lezioni online ha permesso di partecipare a persone che non possono frequentare le aule con
assiduità (es: studenti-lavoratori), tuttavia i ragazzi appartenenti a famiglie economicamente più
svantaggiate non si sono potuti permettere l’acquisto di strumenti idonei a seguire le lezioni e
sostenere esami da remoto, impedendo di fatto una piena partecipazione alla vita accademica.
Ciò ha acuito delle problematiche già esistenti, come ad esempio l’ansia per gli esami e la fatica a
stare in pari con il percorso di studi che provocano frustrazione verso di sé, verso gli altri. L’esito è
spesso è l’abbandono dell’Università, o gesti estremi fino ai casi più gravi, come ci raccontano le
cronache degli ultimi mesi.
La Fuci si è interessata a questo presentando e poi approvando, all’ultimo congresso tenuto prima a
Camaldoli e poi a Fiesole dal 21 al 24 aprile una mozione denominata “salute mentale” relativa al
disagio vissuto da molti studenti nei propri atenei di appartenenza.
La mozione individua 3 aspetti, il primo socio-politico e culturale, il secondo teologico-spirituale e
il terzo universitario.
1) socio-politico e culturale: chi frequenta l’Università appartiene, salvo rare eccezioni, alla
generazione dei “giovani adulti”, fase immediatamente successiva all’adolescenza e nella
quale ci si pone interrogativi sul proprio futuro. La cultura eccessivamente individualista
della nostra società fa sì che dilaghi la logica del successo: la persona è degna se ha successo
e il fallimento non è ammesso. Ciò impedisce il crearsi o il proseguimento di relazioni
sociali, creando così soggetti sempre più chiusi e alimentando anche un circolo vizioso di
rivalsa verso le soggettività vincenti, di modo che gli stessi individui oppressi da un sistema
mal concepito legittimino i meccanismi del loro malessere.
2) teologico-spirituale e psicologico: si tratta di due distinte dimensioni fondamentali e
inscindibili fra loro, in quanto interrogano sulla conoscenza più approfondita di noi stessi,
anche se spesso la seconda è assimilata nella prima, soprattutto nella Chiesa.

3) universitario: centro del problema, l’università oggi appare più come un ambiente
competitivo di produzione, improntato all’efficientismo, e nel quale l’obiettivo è prevalere
sugli altri in una insana corsa a ostacoli che seleziona pochi, troppo pochi e segna tutti.
In una logica del genere dov’è lo studente come persona? E soprattutto, a cosa serve studiare così
tanto e magari eccellere, pagando però un’esistenza nelle migliori delle ipotesi alienante e nella
peggiore divenendo persone disposte anche a scavalcare il prossimo? L’unica conquista rischia di
essere solo un numero a tre cifre affiancato da una L. Il risultato sono adulti spiritualmente poveri.
Come cristiani e come fucini non vogliamo e non possiamo permettercelo e permetterlo.
La Fuci ha già riflettuto in questi termini, per esempio nel numero 4-5-6-/2021 di questa rivista o
all’assemblea nazionale del 2021. Ora torna a riproporre il tema dell’opportunità di forme
alternative del vivere e del farsi universitario. La maturazione della vita pubblica verso livelli di
complessità nuovi e dell’economia verso la produzione di merci e servizi ad alto valore tecnologico
e culturale richiedono, nella loro totalità, una concezione innovativa delle forme d’istruzione
superiore. L’esigenza è la formazione di professionisti e di cittadini attrezzati non solo della
strumentazione specifica o dell’antica triade “leggere, scrivere, far di conto”, ma delle capacità di
interrelazione tra saperi e comunità da una parte, dall’altra di un’alfabetizzazione mirata alla
comprensione critica di problemi e possibilità collettive complesse. Insomma, l’evolversi della
società e dell’economia richiedono professionisti capaci non solo del loro mestiere ma di metterlo in
relazione con i bisogni di tutti e non solo dell’azienda, cittadini capaci di leggere il presente senza
lasciarsi sfuggire le reti di senso e d’interesse che toccano le loro vite anche quando sono poco
visibili e che si fanno globali.
Il disagio studentesco e giovanile rientra tra i problemi che denunciano la necessità di forme
alternative dell’Università e il loro ritardo a manifestarsi. L’Università propone stili di vita, di
apprendimento e di sapere che causano malessere diffuso perché pensate per i bisogni e gli interessi
solo di una parte della collettività, legata a alcuni gruppi sociali e al capitalismo speculativo. Questa
affermazione è tanto soggetta a decostruzione quanto sostenuta da una bibliografia sempre più
ampia, cui la nostra, resa essenziale, rimanda.
Uno studente oggi studia, si sposta, intesse relazioni, costruisce la propria istruzione per poi
divenire un membro di una società economica che richiede le sue competenze per produrre valore in
ultima istanza riducibile a quello finanziario, che sia un ingegnere, un medico, un professore, un
agronomo… Questi stessi professionisti in formazione possono decidere di sfuggire a questo. In
primo luogo avranno difficoltà a trovare uno spazio libero, in secondo si ritroveranno comunque in
una marginalità sociale dove al massimo far sopravvivere forme esistenziali di resistenza ma non
credibili come alternativa di vita per molti.
Come operare per avere almeno la probabilità d’innescare un processo contrastivo di una qualche
realtà? Una proposta di Università e di vita contemporanea centrata sul valore della persona, della
sua autonomia, della sua emancipazione inserita sulla coscienza della fraternità e dell’uguaglianza
sociale come argine a difesa dell’umano. Questa è possibile facendo interagire l’Università con
l’attore che è la metafora del nostro tempo, e che la fuci ha già affrontato, la città.
Pensiamo una costruzione di un diverso rapporto tra città e Università. Questa, per le sue
caratteristiche italiane, ha a disposizione, da una parte, locali e strutture sparse per il territorio
cittadino e talora suburbano; dall’altra, un capitale umano sia in formazione sia specializzato ad alto
valore. E’ comunque in continua ricerca di sostentamento finanziario, collaborazioni di progetto e
riconoscimento collettivo. La città come entità politica ha strumenti politici e normativi per

intervenire in profondità nel tessuto locale. Ha soprattutto l’urgenza sempre più impellente, molto
più che l’Università, di rispondere alle sfide contemporanee: malesseri psicofisici, congestione
urbana, illegalità diffusa, fragilità di un’etica e una cultura pubblica condivise, precarietà
esistenziale (lavoro e identità) di gruppi sociali, turistificazione.
L’incontro di queste due dimensioni ha in sé la possibilità di un nuovo modello sistematico di
cogestione dei problemi. Da una parte aprire le sedi universitarie, i loro spazi, le loro strutture alla
cittadinanza e ai visitatori consentirebbe un reale ingresso della città nei luoghi dell’istruzione
superiore, del pensiero creativo e del sapere originale. Un’attenta pianificazione di convenzioni tra
rettorato e dipartimenti e decisori pubblici, enti privati, terzo settore e associazioni, una completa
rimodulazione delle funzionalità universitarie, degli orari, dei servizi, degli spazi risulterebbe in un
movimento di apertura a tutti, con numerosi benefici a patto di una rispettosa armonizzazione con le
finalità tradizionali dell’Università. L’organizzazione cogestita di una più ampia e accessibile
offerta culturale ad opera di un’alleanza a tutto campo tra città e Università nel territorio di questa
risulterebbe una piattaforma formidabile di accoglienza delle problematiche contemporanee
summenzionate. L’organizzazione di itinerari, seminari, tavoli di riflessione, presentazioni, eventi
musicali e esperienziali nell’Università per mezzo delle sue risorse umane, strutturali e immateriali
rappresenterebbe un’espansione e una risignificazione dell’offerta di intrattenimento urbana, una
prospettiva di tempo libero multilivello.
La fruizione gratuita o a prezzo sociale di cultura dinamica, creativa e originale interverrebbe sulle
problematiche della città contemporanea. Consentirebbe un’opera di redistribuzione culturale a
favore degli strati sociali per cui la cultura è difficilmente accessibile anche solo come aspirazione,
le criticità psicofisiche e esistenziali dei membri fragili della comunità troverebbero sfogo e
strumenti di risoluzione in un ambiente pensato per offrire accoglienza a domande di senso, a
incontro di diversità, a riconoscimenti di valore. Le lacune nelle competenze per una vita pubblica
consapevole, autocosciente e attiva troverebbero sollievo in un’offerta culturale sentita sempre
meno come ostile e separata dalla quotidianità, sempre più come un diritto, un divertimento, una
parte significativa della vita, in un vero esercizio di educazione democratica dove tutti i partecipanti
si scoprirebbero attori non passivi. Questo complesso di politiche andrebbe infine a incidere
sull’ingolfamento turistico di talune zone specifiche, a favore invece di una diluizione sul territorio
dei visitatori in corrispondenza delle strutture universitarie, sempre più compresenti, per le loro
caratteristiche edilizie intrecciate alle fasi urbane della città, nei centri storici e nelle periferie in via
di sviluppo, con considerevoli benefici anche per i quartieri di nuova attrazione. Il saggio di
esperienze di questo tipo si ha già oggi alle iniziative di apertura purtroppo solo momentanea delle
università alla cittadinanza, in corrispondenza delle notti del ricercatore, delle giornate di accesso
gratuito e delle iniziative di terza missione.
Tutto questa costruzione interverrebbe sul malessere studentesco? E’una speranza che proponiamo
ai lettori. Se gli studenti sono in crisi per ansia, competizione, solitudine, alienazione, pressioni,
un’Università così coinvolta nel farsi di una comunità, sull’innesto dell’istruzione superiore rivolta
a tutti, potrebbe essere la soluzione. La coscienza di vivere, e di poter partecipare a una comunità
viva, riconoscibile, e che quella partecipazione conta! Comporterebbe una gratificazione
importante, l’uscita dall’isolamento, il riconoscimento di sé in una comunità che sa stimarti per il
contributo reale delle tue inclinazioni che si accrescono e che coltivi, non per quanto eccelli in un
sistema di valutazione. Il Settecento filosofico e le scienze sociali hanno insegnato che operare in
una collettività potendo migliorarla è fonte di felicità.

E’ una felicità, non individualista ma radicata in una comunità che sa estrarre valore nuovo e sociale
dal sapere e da chi al sapere si addestra, che appagherebbe la dignità e l’esistenza degli studenti.
Sarebbe la migliore vendetta dei nostri compagni rimasti indietro.