Reclusione che smarrisce, inclusione che riscatta
di Massimiliano Ferretti, fucino del gruppo Città Studi di Milano, studente di Ingegneria informatica al Politecnico di Milano
Reclusione che smarrisce, inclusione che riscatta
Giovedì 16 marzo tornavo da una serata di distrazioni insieme agli amici della Fuci; il tempo l’abbiamo
trascorso insieme dopo essere usciti da un incontro, tenutosi nell’Università Cattolica del Sacro Cuore,
sul Carcere italiano; tornavo e riflettevo su un frammento di questo circoscritto inesistente, perché tale lo
consideravo io e molti individui comuni.
Il Carcere per noi, o almeno per me, avrebbe potuto non esistere; mai ci pensai o mi spinsi ad
affrontarlo. Un’analoga alienità è diffusa tra cittadini, dato che la nostra quotidianità non si interfaccia,
com’è giusto che sia, con la sfera criminale; per questa ragione quando la incontrerà creerà un
incontestabile scontro castigato per la sua incomprensibile natura, col fine di porre rimedio
all’incomodo e dirigersi verso la propria serenità.
Tale rimedio agirà principalmente per l’obiettivo di una sazietà della vittima, ma viene chiamato giustizia
penale. La giustizia rifletterà il male subito, per rasserenare l’animo dell’innocente, procurando
direttamente ulteriore dolore e nuove vittime; nelle parole della professoressa Mazzucato, insegnante nel
Dipartimento di Scienze Giuridiche, “il male viene inflitto come giustizia”.
Anche se difesa, la giustizia penale non ragiona sotto un principio a lungo termine: scappa, appaga la
soluzione istintiva per farla subito pagare ai criminali; quindi facendogli subire la pena, ma ignorando la
destinazione costruttiva dell’incarcerazione: una riflessione e comprensione del male che si ha inflitto,
tesa alla risanazione sociale.
Non si tratta di condonare indiscretamente le colpe, ma di riconoscere l’individuo oltre ad esse come
persona; il suo un sintomo di una malattia sociale; la sua ultima sponda il carcere. Se parte dello scopo
non fosse il reinserimento in società allora i carcerati dovremmo chiamarli trattenuti al crimine. Poniamo
“il bene come risposta e sviluppo” dice la professoressa Mazzucato, come Gesù Cristo nel salvare
l’adultera dalla lapidazione salvò sia lei che i lapidanti.
Cosa pensa il cappellano del carcere di Busto Arsizio, Don David Riboldi, sulle condizioni attuali delle
carceri italiane?
“Il carcere è criminogeno”, esclama Don David, per poi continuare, descrivendo come i carcerati sono
svuotati di mansioni (non esistono lavoro o passatempi in carcere, salvo eccezionali strutture come il
carcere di Bollate, ribattezzato “Disneyland” dal Cappellano), rimasti senza niente da fare se non parlare
di ciò che li accomuna: il crimine. “Anche i criminali vogliono essere accettati” e di conseguenza parlano
di reati, e per di più essi esagerano con l’intenzione di distinguersi e formarsi come componenti
rispettati del gruppo. Così sanno come posizionarsi perché questo è il mondo loro.
Vivono lo stesso ambiente per cui sono entrati e da cui dovrebbero uscire; eppure non li si accompagna
verso una vita normale, li si rinchiude dal mondo e quando scontano la pena cosa li aspetta fuori dal
carcere? Senza niente, nessuno. Evidentemente non gli rimane che rientrare.
Discorrendo di carenze sistemiche parrebbe che nel Paese manchi il sentimento di pietà verso le
persone; fortunatamente un esempio di redenzione esiste, caldeggiato da Don David: La Valle di
Ezechiele.
Nella cooperativa La Valle di Ezechiele viene esemplificato quel lavoro di risanamento qui finora soltanto
teorizzato; perché agisce sotto collaborazione delle aziende e fornisce un lavoro agli scarcerati; dopo
tale lavoro può vantare, commenta fieramente Don David, un tasso di recidiva “pari allo zero
percento!” contro l’oltre sessanta percento del tasso di recidiva generale.
Una cattiva pubblicità per le nostre carceri, una buona pubblicità per un ente che prova a colmare un
bisogno riparativo; “è emozionante” condivide Don David, “quando un ex-criminale si ritrova, dopo il
suo percorso di risanazione, a parlare con un gruppo di adolescenti di sé, e per la prima volta dovrà
condividere la propria esperienza criminale sotto una luce diversa, perché comprende di trovarsi davanti
occhi di vite normali”.
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