LE GUERRE DI RELIGIONE QUANTO SONO “DI RELIGIONE”?

di Tiziana Bidone

FUCINA DEL GRUPPO DI GENOVA, STUDENTESSA DI SCIENZE RELIGIOSE ALL’ISTITUTO SUPERIORE
DI SCIENZE RELIGIOSE DI GENOVA

La religione può essere utilizzata come un’arma a servizio della guerra? Ogni conflitto risulta diverso ma spesso le religioni hanno un ruolo importante nelle dinamiche che si vengono a creare. Alcuni usano la religione per raggiungere le persone più vulnerabili, trasformandole in strumenti di lotta.

Diversi sono stati gli interventi, anche da parte della Chiesa stessa, che promuovono l’instaurazione della pace e allontanano dall’orizzonte di pensare la guerra come qualcosa di connesso alla religione. Secondo Origene, «noi non brandiamo la spada contro nessun popolo, né impariamo a fare la guerra, perché siamo divenuti figli della pace per mezzo di Gesù Cristo, che seguiamo come nostro condottiero” (Contra Celsum V,33) per cui i cristiani combattono meglio con la preghiera piuttosto che con le armi. La preoccupazione del pensiero cristiano nel nostro tempo è la promozione della pace, più che la legittimazione della guerra.
Grandi promotori di pace sono stati anche gli ultimi papi: Pio XII, Giovanni XXIII, Paolo VI e Giovanni Paolo II. Appartiene infatti a Pio XII la frase, pronunciata il 24 agosto 1939:

«Nulla è perduto con la pace. Tutto può essere perduto con la guerra».

È molto alto, oggi, il rischio di utilizzo della religione come arma di guerra con la conseguenza che ad esserne vittime sono le popolazioni coinvolte. Il modo migliore per cercare di evitare un conflitto interreligioso è sicuramente quello di instaurare un dialogo tra le religioni, in quanto la conoscenza, il confronto e l’apertura all’altro sono l’unica arma che abbiamo per porre fine alle guerre. Il dialogo può essere la possibilità di creare un terreno di incontro e di confronto tra soggetti diversi che non rinunciano alle proprie caratteristiche e specificità, ma trovano nella relazione con l’altro una maturazione e una nuova conoscenza di sé. Il dialogo può essere un ponte tra comunità religiose, contribuendo al superamento di stereotipi che tentano di rinchiudere le diverse confessioni in mondi separati e isolati. Spesso le incomprensioni, la distanza e l’ignoranza verso l’altro, alimentano solo intolleranza e fomentano violenze e guerre. La religione va dunque percepita come un valore sociale e culturale, non come pretesto o giustificazione per instaurare un conflitto.

l gesuita americano M. Rastoin, studioso ed esperto di dialogo fra cristianesimo e giudaismo, ha pubblicato nel 2019 su «La Civiltà Cattolica» uno studio dal titolo Religione e violenza. Rastoin sostiene che le guerre sono spesso motivate da interessi materiali o da contrasti di natura etnica, mentre la connotazione religiosa viene utilizzata come pretesto, ma non è causa vera e propria di conflitto. Per sostenere questa tesi, prende in esame la guerra israeliano-palestinese, che è considerata una guerra ad alto tasso di religiosità, definendola come un conflitto fra comunità nazionali. Scrive Rastoin:

Il progetto sionista è stato promosso come un progetto nazionale ed è stato realizzato da uomini che non hanno messo la religione al centro delle loro idee. Negli anni Sessanta e Ottanta, i terroristi palestinesi venivano spesso rappresentati come combattenti nazionalisti, ed essi stessi appartenevano a organizzazioni marxiste. Erano nati cristiani o musulmani, ma la religione non era la loro motivazione primaria […]». Mentre per quanto riguarda i sionisti, gli israeliani, «la maggior parte di essi erano atei o indifferenti alla religione, sia che fossero di sinistra (il movimento laburista), sia di destra (il movimento revisionista).

Nel conflitto si è caratterizzato un fattore religioso solo negli ultimi quindici anni perché, più i media lo descrivono come un conflitto tra musulmani ed ebrei, più lo diventa realmente. Anche se i luoghi santi (Gerusalemme, in particolare) fanno risultare la religione un fattore di mobilitazione identitaria, il conflitto resta «principalmente un conflitto tra due comunità politiche umane per una determinata terra».

Sviluppando ulteriormente il proprio ragionamento, Rastoin si concentra sulla storia del Novecento e sulle ideologie come sistema chiuso.

Si constata che sono state le ideologie […] a provocare il numero più alto di vittime della violenza dei tempi moderni. Si tratta di due ideologie atee – il nazismo e il comunismo – che volevano sopprimere ogni religione […] per certi versi, queste ideologie possono essere apparse come caricature delle religioni, con i loro dogmi, le loro gerarchie e le loro scomuniche, ma hanno lottato con fanatismo contro le religioni. I massacri e gli abomini commessi hanno superato tutto ciò che la storia dell’umanità aveva fino ad allora conosciuto. E questo non avveniva affatto nel nome di un Dio o di una religione.

Secondo Rastoin, la religione viene quindi strumentalizzata per legittimare conflitti e motivare maggiormente certe comunità. A conferma della sua tesi, Rastoin fa riferimento alla dichiarazione firmata ad Abu Dhabi, il 4 febbraio 2019, da papa Francesco e dal grande imam di al-Azhar, Ahmad al-Tayyeb. Una dichiarazione di portata storica, e senza precedenti, per quanto riguarda la libertà religiosa e la chiara condanna del terrorismo. «Dichiariamo – fermamente – che le religioni non incitano mai alla guerra e non sollecitano sentimenti di odio, ostilità, estremismo, né invitano alla violenza o allo spargimento di sangue». Inoltre si aggiunge nel documento che,

queste sciagure sono frutto della deviazione dagli insegnamenti religiosi, dell’uso politico della religione e anche dalle interpretazioni dei gruppi di uomini di religione che hanno abusato – in altre fasi della storia – dell’influenza del sentimento religioso sui cuori degli uomini per portarli a compiere ciò che non ha nulla a che vedere con la verità della religione, per realizzare fini politici ed economici mondani e miopi.

Sempre nel 2019, l’autore Michele Rinaldi ha pubblicato all’interno della rivista «Cristianità», 398 (luglio-agosto 2019) un commento, riflettendo sui conflitti nei quali i cristiani sono stati protagonisti.

Spesso la definizione “guerra di religione” è stata utilizzata e accettata troppo facilmente anche dai cristiani stessi. Certo i cristiani hanno partecipato ad alcuni eventi bellici in nome della fede. In particolare, Rinaldi porta l’esempio di Carlo Magno che fu rimproverato da Alcuino di York per aver convertito i sassoni attraverso l’uso della coercizione: «la missio ad gentes non può essere svolta in modo militare».

Rinaldi si concentra anche sulle Crociate, che spesso sono intese come le più grandi “guerre di religione” storicamente avvenute. Esse si sono predicate perché era diventato impossibile visitare i luoghi santi per cui «si potrebbe forse ricercare nella difesa di specifiche libertà per tutti la causa più precisa di imprese
militari, vissute poi da tanti come occasione di servire il bene sotto lo stendardo della Croce e ciò a prescindere da qualsiasi ingiustizia commessa usandone arbitrariamente il nome».

Detto questo, non possiamo comunque fare a meno di osservare che, affinché la religione non sia utilizzata come strumento o causa di conflitto, è necessario il dialogo soprattutto su quei valori che possono essere comuni a tutte le religioni.

Il celebre teologo svizzero Hans Küng, nel suo libro Ricerca delle tracce. Le religioni universali in cammino (pubblicato nell’originale tedesco nel 1999 e tradotto in italiano nel 2003) esponeva, all’inizio e in conclusione della sua ricerca, quattro affermazioni di principio a cui ci possiamo affidare per arrivare a fare sintesi:

Non c’è pace tra le nazioni senza pace tra le religioni.
Non c’è pace tra le religioni
senza dialogo tra le religioni.
Non c’è dialogo tra le religioni
senza criteri etici globali.
Non c’è sopravvivenza del nostro globo
senza un ethos globale, un’etica mondiale.