QUIS CUSTODIET IPSOS CUSTODES?

di Federico Vivaldelli

PRESIDENTE DEL GRUPPO FUCI MILANO CATTOLICA, STUDENTE DI GIURISPRUDENZA ALL’UNIVERSITÀ
CATTOLICA DI MILANO
«Dei tre poteri di cui abbiamo parlato, quello giudiziario è in un certo senso nullo. […] Ma i giudici della nazione sono soltanto la bocca che pronuncia le parole della legge, esseri inanimati che non ne possono moderare né la forza, né il rigore»¹.
Circa tre secoli fa Montesquieu, filosofo e giurista francese, teorico e sistematore della separazione dei poteri, così descriveva il potere giudiziario. All’occhio dell’osservatore minimamente attento, susciterà non poca impressione il divario che separa questa descrizione dalla realtà italiana. È ormai da decenni, infatti, che nel nostro paese l’equilibrio costituzionale tra i diversi poteri dello Stato non esiste più, e ha portato a esiti non certo positivi, sia per quanto riguarda le conseguenze riflesse sulle altre istituzioni, sia il rapporto tra società e Stato.
Obiettivo di questo articolo è stimolare qualche riflessione circa il rapporto tra politica e magistratura nel nostro paese, non avendo la pretesa né di indagare esaurientemente le cause che hanno prodotto la situazione attuale, né di proporre soluzioni che, visto lo stato dell’arte, non potrebbero prescindere da un approccio organico e di lungo periodo. Un unico avvertimento che è opportuno fare è quello di non generalizzare gli spunti che seguono: la realtà è sempre più complessa e ricca.
Le cronache nazionali vengono frequentemente interessate da notizie di un certo tipo: un politico locale che si toglie la vita non riuscendo più a sopportare il peso di un’inchiesta nei suoi confronti che lo vede inquisito da circa 10 anni; un senatore della Repubblica nei cui confronti è in corso un processo penale, lamenta un’invasione di campo della magistratura con riguardo alle sue prerogative parlamentari e denuncia i magistrati che si stanno occupando di quel caso; un’ordinanza di un tribunale sospende l’avvenuta elezione del presidente di uno dei maggiori partiti italiani; un ministro dell’Interno viene più volte sottoposto a processo per l’attività da lui svolta nell’esercizio delle sue funzioni.
Questi sono solo alcuni, forse tra i più noti, dei tantissimi esempi che si potrebbero fare per mettere in luce il rapporto non particolarmente – diciamo – sereno, o quantomeno di sicuro non separato, tra politica e magistratura. Al di là dei singoli giudizi di merito dei diversi casi, ciò su cui vorrei riflettere è il ruolo che oggi la politica e la magistratura, rispettivamente, ricoprono.
Richiamando l’impostazione iniziale di Montesquieu, di cui tutta la tradizione giuridica occidentale (e non solo) è debitrice, si può notare un ruolo “nullo” del potere giudiziario, e una conseguente centralità del potere legislativo – della politica in definitiva – in quanto espressione diretta del popolo, titolare della sovranità. Questo è l’archetipo dello stato di diritto moderno. Una prima evoluzione ci viene testimoniata da Alexis de Tocqueville, politico e studioso francese, che nel 1831 parte per un viaggio negli Stati Uniti, in occasione del quale ha la possibilità di osservare che
«il giudice americano assomiglia in modo perfetto ai magistrati degli altri paesi, eppure è investito di un immenso potere politico. […] La ragione sta nel fatto che gli americani hanno riconosciuto ai giudici di basare le loro sentenze sulla costituzione più che sulle leggi. In altri termini, hanno permesso loro di non applicare quelle leggi che ritenessero incostituzionali»².
Uno dei motivi dell’accrescimento del ruolo dei giudici è stato prodotto, dunque, dalla giustizia costituzionale, nata convenzionalmente proprio negli Stati Uniti con la sentenza Marbury vs Madison del 1803 della Corte Suprema. Nei decenni che seguirono, si consolidò il ruolo creatore del giudice, non più “bocca della legge”, ma interprete, coordinatore e attuatore della legge, financo suo produttore qualora si dovesse ravvisare un vuoto di tutela.
Ulteriori elementi che hanno concorso alla prominenza del potere giudiziario a scapito degli altri due poteri dello Stato sono: un nuovo bilanciamento tra società e Stato, maggiormente incentrato sul riconoscimento e sulla tutela dei diritti; l’allargamento degli ambiti della giurisdizione (quale aspetto della realtà non è oggi regolato dalla legge e dalla conseguente possibilità che un giudice possa conoscere di quella specifica materia?); fattori interni al corpo della magistratura, quali la degenerazione dell’attivismo associativo in correntismo politico; la tendenza di alcuni magistrati ad avere un canale diretto di dialogo con l’opinione pubblica tramite i mezzi di comunicazione, fattore che rischia di confondersi con la ricerca del consenso e lo scambio politico, essendo l’opinione pubblica il naturale destinatario anche della politica; infine, la debolezza della politica rappresentativa:
«la fine della politica programmante apre la via alla politica moraleggiante…»³. «Dei temi morali vengono investiti innanzitutto i magistrati, i tutori della virtù, che prendono così il predominio, operando quindi come longa manus della politica moraleggiante…»⁴.

Osservando questo elenco sicuramente non esaustivo, possiamo già cogliere alcuni spunti: innanzitutto, praticamente ogni elemento non è di per sé nocivo per i rapporti tra politica e magistratura; anzi, alcuni di essi sono delle conquiste del costituzionalismo più recente. Quello su cui occorre riflettere è la loro degenerazione e la necessità di ritrovare la giusta misura. In secondo luogo, un ultimo dato di realtà che è bene tenere in considerazione: quasi paradossalmente, tutto questo continua ad accadere in uno dei momenti di più profonda crisi morale interna della magistratura.
Una possibile conclusione può essere quella di affermare che «lo Stato di diritto contemporaneo ha fatto nascere un nuovo Stato di giustizia. Non è più il politico, ma il giudice la chiave di volta dell’edificio di questo Stato di diritto». Se ciò è vero, «i cittadini devono poter nutrire convintamente fiducia e non diffidenza verso la giustizia e l’Ordine giudiziario. […] Indipendenza e autonomia sono principi preziosi e basilari della Costituzione, ma il loro presidio risiede nella coscienza dei cittadini: questo sentimento è fortemente indebolito e va ritrovato con urgenza…».
Per concludere questa riflessione, un ultimo quesito che sorge spontaneo è il medesimo che ci accompagna fin dal titolo: chi custodirà questi stessi custodi? Chi vigilerà su questi nostri giudici.
  1. Montesquieu, Lo spirito delle leggi, XI,6.
  2. A. De Tocqueville, La democrazia in America, a cura di G. Candeloro, Rizzoli, Milano 1999.
  3. A. Pizzorno, Il potere dei giudici. Stato democratico e controllo della virtù, Laterza, Bari-Roma 1998, p. 56.
  4. S. Cassese, Il governo dei giudici, Laterza, Bari-Roma 2022.
  5. J. Krynen, L’emprise contemporaine des juges, Gallimard, Paris 2012.
  6. Messaggio del presidente della Repubblica Sergio Mattarella al Parlamento nel giorno del giuramento, 3 febbraio 2022.