di Vincenzo Satta *

Il profilo dell’intervento riformatore, tra forma…

Molto si è già scritto1, altrettanto si sta dicendo nei dibattiti televisivi2, come anche nei convegni – sia quelli di carattere divulgativo e informativo, che quelli destinati alla comunità scientifica dei giuristi – sulla legge di revisione costituzionale, approvata in via definitiva dalla Camera dei Deputati lo scorso 12 aprile e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 88 del 15 aprile 2016. Tale riforma costituzionale è l’oggetto del referendum indetto per il 4 dicembre prossimo, in ottemperanza al disposto dell’art. 138 della Costituzione.
È utile prendere le mosse proprio da qui, dalla norma che disciplina il procedimento di formazione degli atti legislativi deputati a modificare la Costituzione della Repubblica.
Ora, non è difficile ammettere che la riforma sia stata deliberata nel pieno rispetto della forma con cui l’art. 138 regola l’esercizio della funzione di revisione costituzionale. La conformità “legale” (nel senso della legalità costituzionale, ossia della formale aderenza alla norma costituzionale) al modello procedurale prefigurato in Costituzione si estende anche all’esperimento dell’iniziativa legislativa – la quale si traduce nella presentazione alle Camere del disegno di legge – da parte del Governo. Per questo motivo la tendenza, un pò approssimativa, alla semplificazione mediatica ha ribattezzato l’intero progetto di riforma, intestandolo al Presidente Renzi e alla Ministra (desinenza ignota alle norme costituzionali3, ma ormai in auge) Boschi. Tale diritto è riconosciuto dall’art. 71 della Costituzione anche al Governo ed è questa la disposizione a cui si deve fare riferimento per attestare la correttezza formale dell’operato del team Renzi-Boschi. Dunque il Governo può presentare alle Camere disegni di legge di revisione costituzionale; questo dato è difficilmente oppugnabile. D’altronde, non si può neanche omettere di ricordare che la legge, presentata – questo è vero – dal Governo, è stata poi esaminata, discussa, emendata e, infine deliberata dal Parlamento. Così che, attribuirla, malgrado tutti i passaggi parlamentari, esclusivamente al Governo, è un pò una forzatura.
l5_1_3-4_2016Ma se le considerazioni appena svolte sono corrette, cos’è che non convince del tutto rispetto all’intera operazione?
Per rispondere all’interrogativo, e forse neanche in maniera del tutto esaustiva, anche per ragioni di spazio, si deve scostare di lato il velo del dato meramente formale e guardare oltre.

(segue)… e sostanza

Ci si può limitare a due ordini di considerazioni.
La prima. In Italia, si inizia a parlare di riforma istituzionale sin dal 1983, anno in cui venne istituita la prima commissione bicamerale – c.d. «Commissione Bozzi» – incaricata di formulare un progetto di revisione dell’organizzazione costituzionale. È largamente risaputo che i lavori non produssero risultati, come, del resto, altrettanto fallimentari si rivelarono i tentativi successivi: dalla «Commissione De Mita-Iotti» (1992), alla «Commissione D’Alema» (1997), sino al disegno di legge contenente la proposta di revisione organica dell’intera seconda parte della Costituzione, inclusa la modifica della forma di governo, approvato dal centro-destra, allora maggioranza parlamentare, e rigettato dal corpo elettorale nel giugno del 2006, mediante referendum.
Il rapido excursus sembrerebbe dimostrare la dissoluzione del «mito» della «grande riforma»4, tanto per motivi attinenti alla difficoltà di individuare convergenze politiche idonee a costruire l’accordo su provvedimenti condivisi, quanto per l’opposizione espressa dal corpo elettorale rispetto alle proposte di modifica di quello che, volenti o nolenti, è percepito come il documento d’identità del nostro Paese, dell’Italia. Infatti, si può ragionevolmente affermare che la larga partecipazione del corpo elettorale al referendum del 25/26 giugno 2006 (oltre la maggioranza degli aventi diritto al voto), di fronte alle vistose aggressioni alla struttura di fondo dell’organizzazione dei poteri, avesse già disvelato il radicamento del popolo italiano alla sua Costituzione.
Il che non sorprende affatto solo a voler tenere in debito conto una circostanza tutt’altro che secondaria: non siamo in fase costituente. Il potere (non di modifica ma) di elaborazione della Costituzione rappresenta sempre un unicum storico, è dotato di significato fondativo della dimensione statuale e dell’ordinamento giuridico ed è espressione, come dicevano due grandi maestri del diritto costituzionale5, di un puro fatto, tendenzialmente non riproducibile per convenzione.
Tale constatazione induce a dire che fase non costituente e «grande riforma» non si tengono l’un l’altra.
Questo non deve sorprendere e conduce alla seconda riflessione.
L’art. 138 della Costituzione è pensato per interventi puntuali e mirati, benchè, non di meno, estremamente incisivi, quali infatti, nel corso della storia repubblicana sono stati adottati6. La gran parte di essi ha riguardato (anche abrogandole) per lo più le norme relative all’organizzazione costituzionale, mentre solo tre modifiche hanno toccato disposizioni contenute nella Parte I7.
Sarebbe invece da verificare – e tutto, qui, da dimostrare – se sia stata sino in fondo percorsa la strada dell’attuazione della Costituzione, possibile sia attraverso una matura e seria politica delle istituzioni, sia tramite modifiche (non formalmente, ma) sostanzialmente costituzionali, benché insistenti su atti dell’ordinamento giuridico di rango sub-costituzionale (regolamenti parlamentari, leggi elettorali, ecc.).

Brevi osservazioni sul contenuto della riforma

Onestà intellettuale impone di riconoscere alla riforma costituzionale di avere lasciato inalterato il contenuto delle disposizioni di cui si sostanzia la prima parte, quella – per intendersi – che fissa i principi fondamentali e i diritti fondamentali. Tuttavia, ritenere (o pretendere che si creda) che gli interventi, soprattutto di più ampia dimensione, che coinvolgono le norme sull’organizzazione siano – per dir così – neutri rispetto alla sistematica dei diritti e alla “tavola” dei principi fondanti il sistema costituzionale è un errore. È bene rammentare che la più recente novella della Costituzione ha investito l’art. 81 della Costituzione con l’introduzione del principio del c.d. «pareggio di bilancio » (l. cost. n. 1/2012). Probabilmente di tale modifica non sembra essersi ancora avvertita la portata che invece appare tanto più dirompente, se la si ricollega all’impatto che essa sta già sviluppando sul mantenimento dello Stato sociale e perciò sulla tutela dei diritti che ne sostanziano il contenuto: dall’istruzione al lavoro, dalla salute all’assistenza sociale. Infatti, a cosa, se non al necessario – giacché adesso disposto da Costituzione – rispetto dei saldi di bilancio, prossimi al rapporto di parità tra entrate e spese pubbliche devono reputarsi ispirati i vari tagli ai servizi alla persona e alla comunità? Questa vuole solo essere una semplicissima constatazione, tesa a dimostrare che modifiche della Parte II della Costituzione siano tutt’altro che neutrali o indifferenti rispetto alla tutela dei diritti fondamentali, specialmente laddove il loro soddisfacimento richieda interventi che importino spesa pubblica. I diritti sociali, ancorché previsti in Costituzione, possono realisticamente rimanere scritti sulla Carta e basta e restare sostanzialmente sterilizzati, dunque non tutelabili.
Certo, è vero che le profonde trasformazioni della struttura sociale verificatesi negli ultimi anni possono indurre a ragionare senza pregiudizi su ipotesi di trasformazione di alcuni istituti e organi regolati dalla Costituzione. In questo senso, qualche ripensamento, anche significativo, quale certamente è il passaggio da un Parlamento a struttura bicamerale paritaria a uno di tipo asimmetrico, ha una sua logica. Tuttavia, è necessario interrogarsi sull’adeguatezza della legge costituzionale a risolvere i problemi e a rispondere alle questioni che l’epoca presente impone di fronteggiare.
Ma soprattutto, è lecito, se non doveroso, capire se gli obiettivi stessi della riforma possano essere efficacemente perseguiti con le disposizioni modificate. E su questo, stante e riconosciuta la ragionevolezza dei fini, appare altrettanto lecito dubitare della coerenza dei mezzi. O per lo meno di alcuni. Si pensi, esemplificativamente, alla questione della rappresentanza delle Regioni e dei territori, di cui il “nuovo” Senato diventerebbe depositario. Come però questo tipo di rappresentanza sia compatibile col mantenimento del divieto di mandato, così che i senatori – titolari, appunto, di un mandato libero – siano svincolati dall’obbligo di far valere gli interessi della Regione che li ha eletti, è tutto da verificare. Anzi, non esiste.
Insomma, bisogna ritornare all’equilibrio tra i termini della nota dicotomia costituita dai valori da preservare e dagli istituti da riformare, alla quale già nel 1994 l’associazione fondata da Giuseppe Lazzati, «Città dell’uomo», sostenuta dalla guida ispirata di un Giuseppe Dossetti ritornato temporaneamente all’impegno politico, aveva inteso valutare le pulsioni politiche del tempo verso inopinate ipotesi di «grande» riforma delle istituzioni repubblicane. Oggi, in più, è opportuno chiedersi anche se il quomodo sia all’altezza delle finalità perseguite.

Qualche spunto conclusivo

l5_2_3-4_2016Due rapide conclusioni.
Innanzitutto, non si può omettere di rilevare il pericolo insito nella radicale personalizzazione del processo riformatore, sicché al referendum è stata impressa, dal punto di vista politico, una funzione di legittimazione dell’indirizzo di maggioranza, non già, come vuole chiaramente l’art. 138 della Costituzione, un profilo di garanzia delle minoranze, virtuosamente innestato, sia pure in via del tutto eventuale, nel procedimento di revisione costituzionale. D’altra parte, come si è detto, è quella medesima disposizione costituzionale che prevede il ricorso a tale istituto, così che tutta la procedura rispetta pienamente, per lo meno nella forma, la Costituzione. Sicché, anche questa oscillazione tra osservanza formale del diritto costituzionale e valenza politica che si attribuisce alla consultazione referendaria deve essere adeguatamente soppesata.
Infine, non si può omettere una valutazione complessiva del processo riformatore, considerato nella sua globalità, quindi anche nel contesto politico nel quale si inserisce: un quadro delicato, poiché condizionato dall’attuale situazione sociale ed economica del Paese e dalle dinamiche dei rapporti internazionali. A ciò consegue che anche – potrebbe dirsi – l’«ipertesto » politico, accanto alle valutazioni tecnico- giuridiche, non può essere ignorato di fronte all’appuntamento referendario al quale ogni elettore dovrà presentarsi consapevolmente informato.

*Ricercatore confermato di Diritto
costituzionale all’Università Cattolica
del Sacro Cuore – sede di Milano;
docente di Legislazione scolastica
all’Università Cattolica del Sacro Cuore
– sede di Brescia; vicepresidente di
«Città dell’uomo», associazione di cultura
e politica fondata da Giuseppe Lazzati

NOTE

  1. La bibliografia sul tema è ormai piuttosto ricca. Tra i sostenitori della riforma cfr. S. Ceccanti, La transizione è (quasi) finita. Come risolvere nel 2016 i problemi aperti 70 anni prima, Giappichelli Editore, Torino 2016; mentre, a favore del “No” al referendum costituzionale del prossimo 4 dicembre, si veda G. Zag rebelsky (con F. Pallante), Loro diranno, noi diciamo. Vademecum sulle riforme costituzionali, Editori Laterza, Roma-Bari 2016. Costruito nella forma del dialogo aperto è il volume di A. Mangia, A. Morrone, Oltre il sì e il no. Dialogo sulle riforme, a cura di G. Zanchini, Editoriale Scientifica, Napoli 2016, molto utile soprattutto per l’inquadramento della riforma nella prospettiva più generale delle trasformazioni dello Stato. Tra gli articoli vale la pena consultare i contributi di C. Fusaro, F. Pizzolato, R. Bin e Luca R. Perfetti nei numeri 6-7 e 8-9/2016 di Aggiornamenti sociali, nonché il focus «Riforma costituzionale e referendum» in Appunti di cultura e politica, n. 4, 2016, con interventi di V. Satta, V. Onida e M. Carli.
  2. Si segnala in particolare il confronto tra il Presidente del consiglio dei Ministri Matteo Renzi e il Prof. Gustavo Zagrebelsky trasmesso in diretta dalla rete televisiva La7, moderato da Enrico Mentana, reperibile in internet all’indirizzo: https:// www.youtube.com/watch?v=ztCCpyBsNCU; oppure sul sito dell’emittente all’indirizzo: http:// www.la7.it/speciali-mentana/rivedila7/referendum- si-o-no-matteo-renzi-vs-gustavo-zagrebelsky- 01-10-2016-194390.
  3. Il vocabolo “Ministro”, declinato al singolare, compare in Costituzione solo nell’art. 110, il quale attribuisce al Ministro della giustizia le competenze in materia di organizzazione e funzionamento dei servizi relativi alla giustizia. Non mi risulta che qualcuno abbia mai inteso la parola nel senso che chi sia chiamato a ricoprire questo munus possa essere necessariamente, soltanto ed esclusivamente un uomo. Una tesi così scombiccherata porterebbe, infatti, al paradosso per cui la nomina di una donna a tale incarico richiederebbe la preventiva modifica dell’art. 110, volta a introdurre accanto al vocabolo “Ministro”, la parola “Ministra”. Più che una teoria scientifica passerebbe per una mediocre sceneggiatura da avanspettacolo: difatti nessuno l’ha mai sostenuta.
  4. Si assume la locuzione a voler designare progetti di modifica della Costituzione che investano raggruppamenti di disposizioni disomogenee quanto a contenuto. Tutte le proposte esaminate nelle varie commissioni a cui ci si riferisce nel testo coinvolgevano vari titoli della Parte II, coinvolgendo profili materiali piuttosto diversi: dalla forma di governo alla forma di Stato, dalle garanzie alla struttura del Parlamento.
  5. Cfr. R. Carrè de Malberg, Contribution à la Thèorie gènèrale de l’Etat, vol. 2, Paris 1922, pp. 490-2, nonché S. Romano, L’instaurazione di fatto di un ordinamento giuridico, in Id., Lo Stato moderno e la sua crisi, Milano 1969, p. 92.
  6. Cfr. per un’analitica ricostruzione delle leggi di revisione approvate dal 1 gennaio 1948, S. Ceccanti, La transizione è (quasi) finita… ecc., cit., pp. 30 ss.
  7. Precisamente l’art. 27, con l’abolizione definitiva della pena capitale, anche dal codice penale militare di guerra; l’art. 48, per rendere possibile il voto dei cittadini italiani residenti all’estero; l’art. 51, in funzione della promozione e della piena ed effettiva parità di genere nell’accesso alle cariche pubbliche.