di Pasquale Ferrara *
Per secoli, le condizioni e le istituzioni suscettibili di condurre alla “pace perpetua” hanno fatto oggetto di riflessioni filosofiche, giuridiche, politologiche. Immanuel Kant nel suo progetto per pace perpetua[1] del 1795 inaugura un nuovo filone di pensiero, che consiste nel prospettare la “multi-vettorialità” delle cause di pace, al di là delle barriere dei diversi ambiti dell’agire individuale e collettivo. Kant sembra suggerire precocemente la stretta interrelazione tra la dimensione interna (jus civitatis), la dimensione internazionale o inter-statale (jus gentium) e la dimensione transnazionale (jus cosmopoliticum). L’interconnessione tra tali contesti caratterizza, nel XXI secolo, la stessa globalizzazione e ne spiega, in parte, le interne contraddizioni. Quasi due secoli dopo, Kenneth Waltz[2] proporrà uno schema interpretativo sulle cause della guerra fondato su tre “immagini”, o meglio, tre livelli analitici: quello individuale, quello sociale-statale, e quello sistemico. In effetti, le cause delle guerre possono essere classificate nelle tre menzionate categorie, a seconda che esse vengano rintracciate nella “malvagità” della natura umana, della “malvagità” delle istituzioni sociali e politiche o nella struttura anarchica del sistema internazionale. In questo ultimo caso, la guerra sarebbe possibile semplicemente perché non vi sarebbero, in ipotesi, istituzioni atte ad impedirla. Alexander Wendt[3], con una folgorante intuizione, spiegherà però che l’anarchia internazionale, ammesso che esista, non è che un “guscio vuoto”: l’anarchia è ciò che gli Stati fanno di essa.
* Istituto Universitario Europeo di Firenze
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