di Piera Angela Di Lorenzo *

solo-sabbia«Piove e la notte è cupa, Qohelet.
Amico delle verità supreme,
io so perché non ti sei ucciso,
vano era anche morire.
Pure a te è negato conoscere
il senso vero del Nulla che insegui:
un Nulla che non sai se nulla sia
o sogno, o visione, o vento, o ancora
soffio caldo di vita»[1]

Con queste parole David Maria Turoldo incontrava il suo amico Qoelet e lo interrogava sul senso autentico dell’esistenza umana. Egli leggeva con passione quel piccolo gioiello della letteratura biblica, considerato da alcuni un vero enigma. Un libro, scritto nel III secolo a.C. e inserito nel canone per errore[2], un’ opera di difficile interpretazione che offre al lettore antitetiche soluzioni. Chi era Qoelet? Un saggio o un veggente, un pessimista o un predicatore della gioia[3], un nichilista o più semplicemente uno scettico fedele? Qoelet era tutto questo e non solo. Qoelet era un saggio perché scrutava la realtà presente, una sentinella critica con occhi laici e conflittuali. Qoelet era un predicatore della gioia perché concepiva la gioia come imperativo divino. Soprattutto Qoelet era un uomo dal cuore libero che, ponendosi in profonda relazione con tutto ciò che avveniva sotto il sole, riusciva a cogliere la bellezza e la gioia della vita, accettando di sopportare il peso e la fatica. Qoelet era libero perché consapevole della sua finitezza e dei suoi limiti.

«Ho consacrato il mio cuore a ricercare ed esplorare con sapienza tutto ciò che accade sotto il cielo»

Cercare di comprendere la realtà è la sfida di ogni essere umano, la sfida di Qoelet. Avere il coraggio di guardare la realtà con la lente della finitudine e dell’essere vuoto non è solo un desiderio ma un obiettivo da perseguire. «Lo scopo della ricerca sapienziale è quello di capire la realtà»[4]. Per Qoelet è necessario capire il mistero della vita per poter vivere, per riuscire a spiegarsi ciò che succede sotto il sole. Consapevole che il sapere alimenti la sofferenza, egli continua la sua ricerca perché dolore ancora più profondo sarebbe non poter cogliere il significato di ciò che avviene. L’uomo diventa inquieto, teso verso un senso che non riesce ad afferrare, teme la fine della vita nel desiderio di una pienezza che non può trovare. Come può l’uomo continuare a ricercare incessantemente il senso autentico della propria esistenza nel tentativo di risolvere le proprie angosce nel rapporto tra la luce della sapienza e la caligine della vanità? Come dissolvere il sorriso disincantato e demistificatore che spesso prende il posto della prospettiva di ricerca?

«Ma egli ha messo la nozione di eternità nel loro cuore»

«Che cosa è l’uomo perché te ne ricordi e il figlio dell’uomo perché te ne curi?» (Sal. 8): l’interrogazione sulla natura dell’uomo posta dal salmista sembra interrogare anche Qoelet. Se la ricerca di una risposta aveva riempito d’angoscia l’animo di Giobbe allontanando da lui la speranza, Qoelet sembra affascinato dalla violenza e dalla radicalità di tale interrogativo. L’uomo è «alito fuggente», fumo che svanisce, soggetto al trascorrere del tempo ma diventa capolavoro di tutta l’opera creata dall’Eterno, tensione verso l’infinito perché Dio ha posto in lui un seme di eternità, un germe di assolutezza. L’uomo in continua ricerca, non comprenderà mai la ragione intima delle cose e la mente umana non si sazierà mai di conoscere perché, nel desiderio di completezza, tenderà costantemente verso l’infinito, dove l’inafferrabile felicità è costantemente protesa verso l’oltre. Ecco che al tempo ciclico e ripetitivo, niente di nuovo sotto il sole, si contrappone il tempo della vita dove la grazia dell’esperienza ordinaria diventa esperienza creaturale, teologale, filiale. L’uomo è chiamato a umanizzare il proprio tempo, non essere travolto, schiavo, dal corso incontrollabile degli avvenimenti; godere del tempo a lui concesso accettando l’impotenza a modificare il corso degli eventi; riconoscere che il tempo è un dono[5] da custodire e non da sciupare. Sulla consapevolezza dell’unicità e irripetibilità dell’esistenza incombe la paura della morte, che conduce l’uomo inquieto a domandarsi: «Quale valore ha tutta la fatica che affatica l’uomo sotto il sole?» (Qo 1,3), «Che valore senso ha faticare per il vento?» (Qo 5,15). Accogliere la fragilità, la caducità e la finitudine dell’elementare condizione creaturale dell’uomo come dono di Dio è l’autentica rivoluzione spirituale che Qoelet silenziosamente mette in atto.

 «Dolce è la luce e agli occhi piace vedere il sole»

Ogni uomo, come Qoelet, si pone molti interrogativi esistenziali: quale atteggiamento assumere davanti alla vanità della esperienza mondana? Come reagire alle inquietudini che spingono a trovare la propria risposta alla domanda di senso? Fino a che punto siamo disposti a dedicarci a questa ricerca? Un modo è possibile e ancora una volta è Qoelet a suggerirlo: «Ecco tutto ciò che ho verificato: i giusti e i sapienti e le loro fatiche sono nelle mani di Dio, anche l’amore e l’odio». Affidare la finitezza della nostra condizione creaturale nelle mani di Dio è la sfida coraggiosa che Qoelet ci invita a cogliere, affinché l’operosità, la sofferenza, la solidarietà e la gioia siano riflesso della mano misteriosa di Dio nella vita dell’uomo.

* Segretario Nazionale FUCI



[1] D. M. TUROLDO, Mie notti con Qohelet, Garzanti, Milano 1992.
[2] p.debenedetti, Qoelet, Morcelliana, Brescia 2004.
[3] g. ravasi, Qoelet e le sette malattie dell’esistenza, Qiqajon, Magnano 2005.
[4] A. luzzatto, Chi era Qoelet?, Morcelliana, Brescia 2011.
[5] Cfr. Sal 31, 16: «nelle tue mani è il mio tempo».