di Marco Viola * e Francesco Sylos Labini **

«I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi,
hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi»
(Costituzione italiana, art. 34)

Come non essere d’accordo con le parole dei padri costituenti? È ormai opinione diffusa che quello all’istruzione sia un diritto dell’uomo primario e inalienabile, indispensabile per vivere in una società complessa. L’articolo 34 scaturisce così come un naturale corollario dell’articolo 3 della Costituzione, che recita: “[…]È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e la uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.”

 In pochi oggi negherebbero che questo diritto dovrebbe estendersi anche al di là dell’istruzione elementare: oltre a dichiarare che “ogni individuo ha diritto all’istruzione”, l’articolo 26 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo aggiunge anche che “l’istruzione tecnica e professionale deve essere messa alla portata di tutti e l’istruzione superiore deve essere egualmente accessibile a tutti sulla base del merito”.

Non si tratta poi solamente di una questione di diritto: è piuttosto intuitivo (e confermato, in diversa misura, da una vasta letteratura) pensare che un Paese che promuova l’istruzione (anche superiore) dei suoi cittadini ne trarrà dei concreti benefici, per esempio dal punto di vista della salute, della lotta alla criminalità, della partecipazione alla vita democratica, dell’economia. Quest’ultimo punto è il fulcro dei due programmi d’indirizzo strategico che si è data l’UE per i primi due decenni del nuovo millennio, la Strategia di Lisbona ed Europa 2020, atti a traghettare i paesi europei verso un’economia della conoscenza, ossia uno sviluppo del tessuto produttivo mirato all’estrazione di valore da una forte innovazione. Uno degli obiettivi proposti dalla prima strategia e, rimasto inattuato, riproposto nella seconda, è di aumentare il numero di giovani (dai 25 ai 34 anni) in possesso di almeno un titolo di istruzione superiore (universitario o equivalente) al 40%. Ogni paese membro dovrebbe fare la propria parte a seconda della condizione iniziale: per l’Italia questo significherebbe arrivare a 26% entro il 2020 (oggi sono circa il 20%).

Oltre alle ottime ragioni deontologiche esistono quindi valide ragioni utilitaristiche per supportare il diritto all’istruzione, anche universitaria. Tuttavia, a fronte di un ampio consenso sulla sua importanza, vi sono opinioni divergenti su come attuarlo: l’articolo 34, pur suggerendo alcuni strumenti attuativi (“la Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso”), lascia alcune questioni indeterminate: come sono definiti (e da chi) gli studenti “meritevoli ma privi di mezzi” a cui si deve garantire questo diritto? In che modo (e da chi) sono definiti gli importi delle borse di studio, e quali sono le altre provvidenze?

Sulla carta

La riforma del titolo V della Costituzione avvenuta nel 2001 prevede che lo Stato e le varie Regioni abbiano ruoli concorrenti nel normare il diritto allo studio. Secondo la legge più recente, ossia il D.lgs. 68/2012, le regioni avrebbero il compito di legiferare in autonomia, ma nel rispetto dei livelli effettivi delle prestazioni (LEP) fissati a livello statale.

L’art. 6 del D.lgs. 68/2012 individua quali tipologie di servizi le regioni debbano garantire: servizi abitativi; servizi di ristorazione; servizi di orientamento e tutorato; attività a tempo parziale; trasporti; assistenza sanitaria; accesso alla cultura; servizi per la mobilità internazionale; materiale didattico. Sia le regioni che le università[1] possono poi prevedere ulteriori tipologie. Ad esempio, in merito ai servizi di assistenza sanitaria, gli studenti iscritti in università aventi sede in regioni diverse da quelle di residenza hanno accesso gratuito ai servizi sanitari di quella regione.

Lo strumento principale per attuare il diritto allo studio è, come suggerito dall’articolo 34, la borsa di studio. A differenza dei servizi sanitari, concessi a tutti gli studenti, solo gli studenti capaci e meritevoli, ma privi di mezzi potranno far richiesta della borsa di studio (saranno cioè idonei); questi saranno individuati da un apposito decreto ministeriale, rinnovato triennalmente, anche sulla base delle relazioni annuali dell’Osservatorio Nazionale per il Diritto allo Studio istituito nello stesso D.Lgs. 68/2012[2]. I criteri di merito dovranno tener conto (anche) della durata del percorso di studi degli studenti richiedenti rispetto alla durata normale e mediana degli studi, mentre i criteri economici saranno parametrati rispetto all’ISEE del loro nucleo famigliare. Questi stessi decreti rinnovati ogni tre anni dovranno inoltre definire l’importo delle borse, parametrato in base al costo di vita delle varie regioni nonché in base alle esigenze derivanti dalla distanza dello studente dalla sede di studi – differenziando, cioè, tra studenti in sede, pendolari e fuori sede.

Ricapitolando: la legislazione vigente prevede che lo Stato fissi i LEP, ovvero i “paletti” entro cui le Regioni (e, in misura minore, anche le università) dovranno poi decidere come attuare l’erogazione dei servizi; inoltre, lo Stato rinnova ogni tre anni i criteri per l’idoneità alla borsa, contestualmente al suo ammontare minimo.

Nella pratica

Se guardiamo al decennio che va dall’A.A. 2001/2002 al 2010/2011, scopriamo che, a fronte di un numero quasi costante di studenti idonei alla borsa (dai 207 mila del 2001/2002 si cala fino ai 181 mila del 2010/2011), una larga percentuale di studenti non ne ha fattualmente beneficiato: si tratta della figura dei cosiddetti “idonei non beneficiari”, ossia degli studenti che, pur rispettando le condizioni di accesso alla borsa sancite dal bando dell’ufficio regionale competente, non ricevono la borsa a causa dell’insufficienza delle risorse. La percentuale di questi sfortunati, quasi dimezzatasi dal 2001/2002 (34%) al 2009/2010 (16%), è poi tornata ad accentuarsi drasticamente nel 2010/2011 (25%), nonostante il calo degli idonei.

Schermata 2014-12-16 alle 20.57.43

Da dove deriva questa anomalia? Per coglierne l’origine occorre guardare alle fonti di finanziamento per le borse di studio. Già prima dell’entrata in vigore del D.lgs 68/2012, queste si componevano di tre capitoli: i finanziamenti statali[3], i contributi regionali, le tasse regionali per il diritto allo studio (pagate da ogni studente immatricolato e non idoneo alla borsa di studio: una sorta di trasferimento di risorse tra studenti). Il decreto 68/2012 introduce però due importanti novità in merito: da un lato, aumenta le tasse per il diritto allo studio, in modo lievemente differenziato in base alle fasce di reddito, scaricando vieppiù l’onere delle borse di studio sugli studenti più agiati piuttosto che sulla fiscalità generale; dall’altro, obbliga le regioni a contribuire in misura pari ad almeno il 40% delle entrate statali per quella regione.

In ogni caso, se fino a prima del D.lgs 68/2012 la figura dell’idoneo non beneficiario non era semplicemente prevista dalla giurisprudenza, viene in un certo senso sdoganata dal momento in cui questa precisa che “la  concessione  delle  borse  di   studio   è assicurata a tutti gli studenti aventi i requisiti  di  eleggibilità […], nei limiti  delle  risorse  disponibili  nello stato di previsione del Ministero a legislazione vigente”. Quindi lo Stato, pur vincolando le Regioni a versare il 40% del contributo statale, non vincola se stesso in alcun modo a coprire delle borse; il diritto allo studio non viene cioè considerato una priorità inderogabile, quanto piuttosto un diritto “secondario” su cui è meglio non prendere impegni troppo stringenti –un rubinetto da poter chiudere agevolmente in tempi di vacche magre.

Conclusioni: dove stiamo andando?

In Germania e in Francia, rispettivamente 418 e 593 mila studenti beneficiano di supporti economici: più di uno studente su quattro. In Italia è invece idoneo alla borsa circa uno studente su dieci, e peraltro una volta su tre la carenza di fondi lo condanna al limbo degli idonei non beneficiari.

La situazione degli ultimi anni non accenna a migliorare: si pensi solo che in una regione come il Piemonte, che ha potuto vantare per anni la copertura del 100% delle borse nonché aver erogato diversi servizi supplementari, dal 2011 la giunta Cota, tagliando sui trasferimenti regionali, ha fatto precipitare questa percentuale al 30%. Per giustificare l’operazione la Regione Piemonte ha cercato di farla passare per una severa riforma “meritocratica”: è stato introdotto un criterio di merito supplementare, ossia una media voti pari ad almeno 25 (senza considerare le notevoli differenze tra i diversi corsi di studio) –autoattribuendosi la competenza, tutta statale, di stabilire quali criteri di merito contino ai fini dell’eleggibilità.

In un certo senso, l’operazione di Cota è un’infelice cartina tornasole di quanto potrebbe avvenire a livello nazionale: per distogliere l’attenzione dallo stato di abbandono del welfare state studentesco si erigono monumenti ad una meritocrazia più mitologica che reale, come ad esempio la Fondazione per il merito prevista dalla legge 240/2010 –la famosa legge Gelmini sull’università. Benché la fondazione nasca senza una funzione ben definita (tranne forse proprio quella di gettare fumo negli occhi), il recente “decreto del fare” gliene ha cucita una su misura, facendola diventare un canale parallelo di diritto allo studio, destinato però solo a studenti che soddisfino requisiti di merito diversi e più stringenti, e finanziato sottraendo risorse alle università[4].

Viene da pensare che nessuno abbia il coraggio di smantellare il meccanismo tradizionale di assegnazione delle borse di studio e che pertanto si cerchi di dirottare l’attenzione su un nuovo meccanismo, riservato ai soli enfant prodige, mentre quello vecchio viene lasciato morire di fame. Chi scrive non riesce ad essere soddisfatto da quest’attenzione, a tratti morbosa, ai pochi eccellenti: davvero l’ambizione europea di una economia della conoscenza può risolversi coltivando i pochi ma buoni? Davvero questo nuovo sistema attua l’articolo 3 della Costituzione, che attribuisce alla Repubblica il compito non tanto di premiare i migliori quanto di rimuovere gli ostacoli al pieno sviluppo della persona? davvero vogliamo uno Stato che rivolge la sua attenzione a chi è migliore anziché a chi ne ha più bisogno?

* Laureando in Filosofia della Scienza presso l’Università degli Studi di Torino

** Fisico, ricercatore presso il Centro E. Fermi di Roma



[1] La legislazione si riferisce anche alle istituzioni  di   Alta   Formazione Artistica,  Musicale  e  coreutica: tutto ciò che sarà detto in proposito delle università si applicherà anche ad esse.
[2] Di questo Osservatorio non si ha però, almeno per ora, nessuna notizia.
[3] Le provincie autonome di Trento e Bolzano gestiscono in autonomia il diritto allo studio; pertanto, non beneficiano di alcun contributo statale.