di Luigi Santoro *

Una delle modifiche proposte dalla riforma costituzionale che ci chiamerà alle urne il prossimo dicembre riguarda la modalità di elezione del Presidente della Repubblica. Restano invariate invece le disposizioni costituzionali che concernono le sue attribuzioni, rimanendo dunque identici poteri e funzioni.
Attualmente, a norma dell’art. 83 Cost., è previsto che questi venga eletto “dal Parlamento in seduta comune dei suoi membri” e cioè congiuntamente dai membri di Camera e Senato; tale disposizione è rimasta immutata nel testo della riforma.
Il nuovo secondo comma di tale articolo non prevede più la presenza all’elezione dei 58 delegati regionali; ciò perché la necessità che il Presidente sia espressione delle autonomie territoriali è comunque assicurata dal fatto che queste già partecipano all’elezione, essendo istituzionalmente rappresentate dal nuovo “Senato delle autonomie”.
Il terzo e ultimo comma dell’art. 83 Cost. è quello più discusso, poiché prevede delle modifiche al quorum necessario per l’elezione. Il testo attuale dispone che “L’elezione […] ha luogo […] a maggioranza di due terzi della assemblea. Dopo il terzo scrutinio è sufficiente la maggioranza assoluta”; nel nuovo testo è previsto invece che “dal quarto scrutinio è sufficiente la maggioranza dei tre quinti dell’assemblea. Dal settimo scrutinio è sufficiente la maggioranza dei tre quinti dei votanti”.
Alcuni commentatori alla riforma hanno ravvisato un potenziale rischio nella circostanza che la scelta del Presidente da eleggere sia espressione di una sola forza politica e dunque non una scelta condivisa, come invece deve essere, dal momento che, a norma dell’art. 87 Cost., il Presidente della Repubblica “rappresenta l’unità nazionale”. Tale timore è dovuto, secondo questa lettura, alla nuova composizione del Parlamento: questo infatti risulta essere composto dalla Camera dei Deputati dove – in base alla nuova legge elettorale – un solo partito può assicurarsi la maggioranza dei seggi, e dal Senato fortemente ridimensionato dal punto di vista numerico.
l4_1_3-4_2016Tuttavia, è incontrovertibile che il quorum per l’elezione del Presidente si sia alzato e tale timore sembrerebbe dunque essere remoto. Infatti, eccezion fatta per il quorum dei 2/3, rimasto invariato per le prime votazioni, per le votazioni successive si passa dalla maggioranza assoluta dei componenti (50% + 1) alla maggioranza dei 3/5 (60%) dei componenti che, nel nuovo Parlamento corrispondono a 438 voti su 730. Ora, considerando che, alla Camera, il partito che vince le elezioni si assicura 340 seggi (cioè il 54% dei 630 che compongono la Camera) e considerando che il Senato è composto da 100 Senatori, affinché il partito che vinca le elezioni possa “da solo” eleggere il Presidente della Repubblica è necessario che, dei 100 Senatori, ben 98 siano dello stesso partito, per poter raggiungere i 438 voti richiesti.
La circostanza per cui, poi, dal settimo scrutinio in poi, il quorum richiesto è la maggioranza dei 3/5 dei votanti (dunque presenti alla votazione) e non dei componenti eviterebbe l’assentarsi dei parlamentari al momento della votazione: ciò, in ogni caso, sarebbe contrario all’interesse delle opposizioni. Appare evidente dunque come la scelta del Presidente debba necessariamente essere condivisa.

*Vicepresidente Nazionale della FUCI,
studente in Giurisprudenza all’Università
degli studi di Reggio Calabria